La Serva di Dio Lucia Noiret, educatrice e fondatrice

 

La Serva di Dio Lucia Noiret, educatrice e fondatrice

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    1.   Fare memoria dei santi e testimoni

 

Ringrazio il parroco per aver inserito, a conclusione dei Quaresimali di quest’anno, un ricordo della Serva di Dio Suor Lucia Noiret, la quale, in questa città di Imola, ha profuso, per quasi 48 anni, le sue migliori energie di mente e di cuore, e qui ha concluso i suoi giorni il 17 marzo 1899.

Fare memoria dei Santi e testimoni è fondamentale, perché ci porta a riscoprire le radici della nostra fede, che vediamo compiuta in pienezza in uomini e donne, che hanno risposto con generosità alla loro vocazione cristiana nella specificità della propria missione. Questi “figli eletti della Chiesa” ci ricordano che tutti siamo chiamati ad essere santi. Al riguardo, nell’Esortazione Apostolica Gaudete et exultate sulla chiamata alla Santità nel mondo di oggi, il Papa ci rassicura che «i Santi, che sono giunti alla presenza di Dio, mantengono con noi legami d’amore e di comunione» (GeE, 4). Per questo legame spirituale, essi ci accompagnano, come amici e intercessori, nel cammino di fede e sono inoltre per noi un esempio di vita cristiana. Davanti alla loro testimonianza sentiamo risuonare nel nostro cuore la domanda che si poneva S. Agostino: «Se questi e queste, perché non io?». Nella luce della Pasqua del Signore vediamo risplendere coloro che si sono lasciati raggiungere dall’amore di Cristo; anzi, come afferma il Papa, citando Benedetto XVI, «la misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua» (GeE, 21). La Quaresima, che ormai volge al termine, con il suo carattere battesimale, ci condurrà al Sacro Fonte, per rinascere alla vita nuova dei figli di Dio, che consiste in un rinnovato rapporto di amore con il Signore e nel testimoniarlo nella concretezza della nostra esistenza quotidiana.

Vorrei sottolineare tre ambiti nei quali i Santi ci sono di esempio per vivere la vocazione cristiana nel nostro tempo. Il primo ambito è quello della testimonianza. Noi viviamo in un cambiamento d’epoca dominato dalla fluidità, dove mancano “punti fermi”, quei “principi irrinunciabili” che hanno segnato le epoche precedenti. Al riguardo, si ritiene verità quello che è il “mio sentire”, il “mio desiderio”, che poi passa, da uno all’altro, con estrema facilità. Davanti a questo relativismo – che non è solo etico, ma potremmo dire che è esistenziale – i Santi, con la loro testimonianza, colmano il divario tra l’essere ed il dover essere, tra ciò che sentiamo e ciò che dobbiamo essere come persone. Ciò perché la testimonianza è estremamente concreta: è amore che si piega sulla realtà della persona e delle situazioni, superando così quella liquidità che sfugge dall’abbraccio della realtà stessa.

I Santi sono così un grande messaggio, soprattutto per i giovani di oggi, che vedono realizzato l’ideale a cui aspira il loro cuore, il sogno della vita che si schiude davanti a loro sotto la spinta del loro entusiasmo, nelle persone pienamente realizzate nel dono di loro stesse. Questo, anche se non riescono a comprendere pienamente la motivazione di fede che ha determinato quella donazione. È attraverso questa testimonianza concreta, che possiamo condurre alla grande motivazione della fede. In una parola, si realizza così ciò che San Paolo VI scriveva nell’Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, (…) o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (n. 41); ed aggiungeva: «Con tale testimonianza, senza parole, questi cristiani fanno salire nel cuore di coloro che li vedono vivere, domande irresistibili: perché sono così? Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li ispira? Perché sono in mezzo a noi? Ebbene, una tale testimonianza è già una proclamazione silenziosa, ma molto forte ed efficace della Buona Novella. Vi è qui un gesto iniziale di evangelizzazione» (n. 21). I santi del nostro tempo, con la loro testimonianza, provocano l’uomo di oggi a superare quel drammatico divario tra Vangelo e cultura, ed è questo il secondo ambito. Già Paolo VI ne parlava in quella stessa Esortazione apostolica, dove affermava: «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (n. 20). Lo stesso Pontefice vedeva proprio nella testimonianza la possibilità di colmare questo divario.

Un terzo contributo che i Santi danno al nostro tempo è quello della gioia. La Gaudete et exultate pone la gioia ed il senso dell’umorismo tra le caratteristiche della santità nel mondo di oggi. Queste caratteristiche o espressioni spirituali riguardano la nostra chiamata alla santità in un mondo dov’è notevolmente presente «l’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita; la negatività e la tristezza; l’accidia comoda, consumista ed egoista; l’individualismo, e tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio, che dominano nel mercato religioso attuale» (n. 111). Il Papa afferma che «il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza» (n. 122). Un esame attento della vita dei santi ci dice che questo è stato vero per loro, anche di fronte a tante difficoltà personali. Laddove hanno vissuto ed operato, hanno portato serenità, positività e quella letizia soprannaturale che è dono dello Spirito. Già nella Evangelii Gaudium il Papa aveva affermato che la gioia «si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto» (EG, 6).

 

    2.       La Serva di Dio Lucia Noiret

 

Voi conoscete Lucia Noiret, perché un segno indimenticabile è stato lasciato dalle religiose dell’Istituto da lei fondato prima, fino a non molti anni fa, nella scuola non lontano dalla Cattedrale, poi anche nel quartiere della Pedagna e in questa parrocchia in particolare.

Vorrei ora soffermarmi non tanto sugli aspetti biografici della sua vicenda umana, quanto sulla sua spiritualità, così che ci possa aiutare a vivere la vita cristiana rispondendo alla nostra vocazione e alla nostra missione.

Mi sembra quanto mai significativa una frase scritta, pochi anni dopo la sua morte, da una ex-allieva del Conservatorio, nel quale ella svolgeva il ruolo di educatrice: «Era la donna cristiana secondo il Vangelo, ed evangelica era la sua carità che esercitava sempre, ovunque, con impareggiabile slancio. Ricordi come cercava di infondere in noi la devozione al Sacro Cuore? E quanto era aliena da qualsiasi piccolezza; come amava il vero, il bello, il buono»[1]. Da questo ricordo comprendiamo bene come la spiritualità della Serva di Dio fosse incentrata sulla devozione al Sacro Cuore di Gesù; come l’impegno di carità caratterizzò la sua vocazione; come il compito educativo, che svolse, sia in favore delle ragazze e dei bambini, sia per la formazione delle religiose, avesse come sorgente la contemplazione del Cuore di Cristo.

 

a.       La devozione al Sacro Cuore di Gesù

Fin dalle prime biografie si racconta che, quando le venne chiesto che nome volesse per l’Istituto da lei stessa fondato, Madre Lucia Noiret rispose: «Io mi contento di qualunque titolo, ad ogni modo noi siamo le povere servette del Sacro Cuore di Gesù»[2]. Le “servette” diventarono le “ancelle” nella forma ufficiale e così Mons. Luigi Tesorieri, Vescovo di Imola, ne approvò l’istituzione.

L’opera della Noiret a Imola si colloca cronologicamente fra due momenti molto significativi per la devozione al Cuore di Gesù. Siamo nel XIX secolo, quello che più vide l’affermarsi di questa devozione, dopo le esperienze mistiche di Santa Margherita Maria Alacoque a Paray-le-Monial (1673-1675) e diverse espressioni favorevoli da parte della Sede Apostolica. Ultima in ordine di tempo, Pio VI nel 1794 condannò le proposizioni dei giansenisti contro la devozione al Sacro Cuore. Significativo è ciò che avvenne poi nel 1856, quando Suor Lucia si trovava a Imola da pochissimi anni: Papa Pio IX, che fino a 10 anni prima si trovava in questa sede come Arcivescovo-Vescovo, estese a tutta la Chiesa Cattolica, universalmente, la festa del Sacro Cuore di Gesù. Nell’anno poi in cui morì la Madre (1899), Papa Leone XIII consacrava l’umanità al Sacro Cuore di Gesù.

La Noiret introdusse nella comunità di Imola la pia pratica dei primi venerdì del mese. Il Servo di Dio Angelo Bughetti, che qui a Imola è ricordato con particolare riguardo, racconta: «Io, che per 10 anni, fino alla vigilia del Sacerdozio, sono andato al Conservatorio a servir ogni giorno le Sacre Funzioni, ricordo che quel venerdì mi pareva sempre un giorno di festa, (…) e un insolito movimento di gioia animava tutto l’Istituto»[3]. Don Bughetti attribuiva il merito di tanta solennità allo zelo di Madre Lucia, la quale – dice ancora – «dopo quelle funzioni si presentava alle sue Suore, alle fanciulle, più sorridente, più dolce»[4].

Si racconta che la Noiret facesse tante cose e seguisse molte attività durante tutta la giornata, ma appena poteva si ritirava in preghiera davanti all’immagine del Cuore di Gesù. Anche la famosa notte fra il 12 e il 13 aprile 1873, raccontano alcune cronache che la passò «in preghiera, dinanzi all’immagine del Sacro Cuore»[5]. Voleva inoltre che in tutte le stanze dell’istituto fosse collocata un’immagine del Sacro Cuore e così anche nella croce d’argento appesa al collo di tutte le Ancelle. Madre Lucia definiva la Congregazione «tutta opera del Sacro Cuore»[6].

Ma quali si potrebbero dire essere i tratti salienti della devozione di Madre Lucia Noiret al Sacro Cuore di Gesù? Se ne possono indicare alcuni.

Il primo è la confidenza. Madre Lucia dialogava col Cuore di Gesù, perché contemplandolo «era altrettanto affascinata, avvinta e grata dell’amore che sentiva riversarsi su di lei da quel Cuore»[7]. Gli manifestava con la voce i propri sentimenti interiori. Dicevano che durante la notte, quando a causa dell’asma era insonne, la sentivano parlare con Gesù[8]. Alle Suore, come alle ragazze, diceva: «Avvezzatevi a parlar molto con Lui, intendetevela con Lui solo e godrete di una gran pace»[9].

Secondo tratto è il desiderio di compiacerlo. Fin dalla sua origine, la devozione al Sacro Cuore si lega al dovere di una giusta riparazione: amare il Cuore di Gesù per riparare le offese e le sofferenze a lui arrecate dai peccati degli uomini. La prospettiva della Noiret è in realtà molto più positiva. Il cammino di santità, la via della perfezione, è l’opera del Cuore di Gesù in noi. Il suo punto di partenza è il desiderio di corrispondere a tanto amore ricevuto. Diceva: «Corrispondiamo almeno noi che siamo le sue spose. Se non amiamo noi il Signore, chi lo amerà?»[10].  Più volte usò l’espressione: «Gesù sarà contento di noi!»[11]. E alle sue Suore diceva: «Fate e sopportate ogni cosa per dargli gusto e piacere»[12].

Terzo tratto è quello di una progressiva assimilazione. Si tratta di un tema ricorrente nella devozione al Sacro Cuore, dal momento che anche nella giaculatoria si è soliti pregare: «Rendi il nostro cuore simile al Tuo». Ancor prima che un’imitazione morale della carità di Cristo, il legame col Cuore di Gesù è strumento di santificazione come un “canale di trasmissione” dei sentimenti di Cristo. Dice Madre Noiret: «Chi ama molto il Signore, non sa desiderare altro che il compimento perfetto della volontà di Dio in tutte le cose, a costo di qualunque sacrificio»[13]. I primi biografi della Noiret, affascinati e colpiti da questo desiderio di assimilazione totale, vollero evidenziare come il suo pio transito avvenne un venerdì di Quaresima, intorno alle 15, «il giorno e l’ora in cui il nostro Redentore Divino morì per noi sulla Croce»[14].  Commenta il Can. Bughetti: «Se ella avesse potuto scegliere, non avrebbe scelto un altro giorno, non avrebbe scelto un’altra ora!»[15]. Racconta ancora Suor Giuseppina Onofri: «Al Piratello Suor Lucia, morta nell’ora e nel giorno in cui è morto Gesù, viene come lui deposta verso sera in un sepolcro non suo, offerto dal nobile Augusto Gottarelli»[16]. La cosa si ripeterà poi nel 1925, quando il suo corpo venne esumato da quella tomba e trovò l’ospitalità della tomba delle Monache Clarisse, dove tuttora, indistinta in un ossario comune, il suo corpo attende la Risurrezione.

La devozione al Sacro Cuore è sempre attuale, in quanto ha la sua origine nel Vangelo stesso e riguarda la persona stessa di Gesù, che è il centro della nostra fede. Nel tempo forte della Quaresima e nel Tempo di Pasqua siamo invitati a guardare al Cuore di Cristo.

S. Giovanni, che potremmo definire “l’apostolo del Cuore di Gesù”, invita a contemplare il Cuore trafitto di Gesù nella sua morte (cf. Gv 19,34) e a “toccarlo”, proprio come ha fatto l’apostolo Tommaso su invito del Risorto. Le parole della Prima lettera di Giovanni – «quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono” (1Gv 1,1) – sono per noi un invito a guardare il Cuore trafitto e ad accogliere le parole del Risorto all’apostolo incredulo: «Metti la mano nel mio costato e non essere più incredulo, ma credente» (Gv 20, 27). Nella storia personale di ciascuno ci sono momenti di intensità, nei quali abbiamo sperimentato gli effetti del “toccare” il Cuore di Gesù, mediante la grazia dello Spirito Santo o grazie alla vita e alla testimonianza di altri. In quei momenti la nostra fede è certamente aumentata, perché abbiamo conosciuto Cristo, «non solo per sentito dire» (Gb 42,5), come disse Giobbe, ma per esperienza personale, perché il Cuore di Gesù ci dice che la fede non è un fatto soltanto intellettuale, ma esperienziale. Nel Vangelo c’è una bella e tenera immagine dell’apostolo Giovanni, che durante l’Ultima Cena posa la testa sul petto del Signore. È un’icona che ci parla del Sacro Cuore come Cuore di sposo. Il tema delle nozze percorre tutta la Bibbia: richiama l’amore intenso, passionale, tenace, genuino del Cantico dei Cantici e quello di Osea, dove il marito perdona la moglie adultera e la riprende come sua sposa, mostrando una giustizia e un diritto che non viene dalla legge, ma dall’amore; è lo stesso amore sponsale che si rivelerà in Cristo, che nell’ Apocalisse ci si presenta come colui che sta alla porta e bussa (Ap 3,20), non come un postino, né come un esattore delle tasse o uno scocciatore che ci disturba, ma come un innamorato che, per dirla con il Cantico dei Cantici, sta dietro al nostro muro, guarda attraverso la finestra, spia attraverso le inferriate (Ct 2,9b), perché vuole entrare per incontrarci.

L’incontro sponsale avviene sacramentalmente nell’Eucaristia, dove Gesù ci dona il suo corpo, cioè tutto sé stesso, e noi siamo chiamati a offrirgli il nostro culto spirituale.  Secondo San Paolo, esso è l’offerta del corpo: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,1-2). Nella contemplazione del Cuore di Gesù, come cuore di sposo, trova pieno significato la nostra affettività, che non può essere inibita. Ciò vale per i coniugi, ma anche per coloro che scelgono la verginità per il Regno, come i consacrati e le suore. La loro verginità deve essere una “verginità donata” nella paternità e maternità spirituale. Essa infatti, come ricorda l’Esortazione Apostolica Amoris laetitia, «è una forma d’amore» (n. 159). L’amore sposale del Cuore di Gesù chiama tutti a condividere con lui la nostra vita, scegliendo e desiderando ciò che Lui ha scelto e desiderato, cioè la fedeltà al Padre e all’uomo.

Nell’alleanza nuziale riscopriamo anche il senso della nostra offerta, che non è qualcosa che abbiamo fatto. È qualcosa di molto più profondo e totale: noi stessi. Tutto noi stessi, le nostre opere buone, ma anche le nostre ambiguità, le nostre contraddizioni, la nostra “debolezza”, come la chiama S. Paolo, di ogni genere: fisica, psicologica, morale o spirituale. Soltanto quando riusciremo ad offrire tutto noi stessi, la nostra parte positiva e quella negativa, perfino quella di cui ci vergogniamo, a Dio potremo dire di avere offerto tutto, certi che Egli ci conosce. Il Vangelo è proprio questa buona notizia, che cioè nulla ci può più separare da Dio e non c’è niente in noi che Lui non ami, non cerchi, non accolga. S. Paolo lo dice con quelle note parole: «Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (Rm 8,1-2).

  L’esperienza di un amore così ci libera. Contemplando e toccando il Cuore di Gesù, impariamo così ad essere pieni di fiducia nonostante la nostra debolezza, per vivere con Dio come suoi familiari, confidando soltanto nella sua misericordia. Con S. Paolo potremo anche noi dire: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?» (Rm 8,35). Potremo portare il suo «giogo soave», che è la carità: essere come lui miti ed umili di cuore, per amare i nostri fratelli, con la sua stessa compassione ed accoglienza.

 

b.       La carità

Alla luce del Cuore di Gesù, scopriamo il secondo aspetto della spiritualità di Madre Lucia Noiret; la carità, che fu alla base della sua vocazione religiosa nelle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret. La carità fu quindi per la Noiret l’elemento tipico del suo itinerario spirituale, teso al compimento della volontà di Dio. Non a caso le Suore della Carità aggiungono ai tre voti di castità, povertà e obbedienza quello di servizio ai poveri[17].

Si possono individuare alcune espressioni della carità di Madre Noiret. Era una donna con un forte senso pratico: davanti ad un problema o ad una difficoltà, mediante la fede e la preghiera andava in cerca di una soluzione. Ma, prima di tutto, era capace di una fortissima empatia. La gente andava da lei prima di tutto per essere ascoltata: «Anche quando non ci sono rimedi, sa di potersi sfogare e piangere, perché Madre Lucia non dice solo parole buone: sa condividere la sofferenza di chi soffre»[18]. D’altra parte, alcune esperienze della vita l’avevano resa particolarmente sensibile a tante tipologie di sofferenze e povertà: era rimasta orfana della mamma ad appena quattro anni; era adolescente quando lasciò la sua casa, la sua famiglia ed affrontò un primo, lungo viaggio per entrare nel Noviziato delle Suore della Carità a Napoli; a partire dal 1870, aveva sperimentato cosa significa essere disprezzata ed emarginata per ciò che sei, nel suo caso per il suo stato di religiosa; più volte aveva temuto, per lei e per le sue Suore, lo sfratto dal Conservatorio e quindi l’essere abbandonate ad una precarietà di casa, cibo e sussistenza.

Madre Lucia era una donna buona. Diceva alle sue Suore, impegnate nell’educazione: «In una Maestra religiosa deve sempre prevalere la dolcezza alla severità, perché con i modi aspri mai si concilierebbe l’affetto dei cuori e la docilità delle volontà»[19]. Ma questa dolcezza di modi non era frutto della sua indole naturale. Forgiata fin da piccolina alla vita di montagna, il suo temperamento era deciso, la sua espressione severa. Dai racconti di chi ha raccontato la sua vita, si desume che il suo era un carattere forte. La carità di Madre Lucia è stata dunque prima di tutto un lavoro nella profondità della sua interiorità. Lavoro che la rese severa con sé stessa, ma tenera e disponibile verso gli altri. La sua disponibilità si coniugava in tanti piccoli gesti ed attenzioni concrete. C’erano poveri che bussavano alla porta, ma anche gli operai dell’Istituto a volte versavano in gravi difficoltà. Scrive Suor Giuseppina Onofri: «Benché ella stessa sia povera, trova sempre il modo di aiutarli. Quando l’inverno si avvicina, a uno compra un mantello, ad un altro la lana e fa far maglie dalle sue Suore. Dà loro da mangiare e li comprende nelle loro fatiche»[20]. Ancor più interessante è il modo con cui fa la carità: non con le rimanenze e gli scarti. «Si guardava ben dal dare roba scarta o degli avanzi…  sia perché “dell’acqua e della polenta – diceva – i poveri ne hanno sempre” e poi perché diceva: “Che bella figura farei se Gesù mi ringraziasse di tali cose dinanzi a tutti nel dì del giudizio universale?”»[21].

La strada per questo importante lavoro su di sé era l’umiltà, una continua osservazione dell’amor proprio, «chiedendo umilmente perdono, a volte anche in ginocchio»[22].

Un terzo aspetto in cui la Noiret esprimeva una grande carità era il perdono. Angherie e vessazioni erano state tante nel suo lavoro al Conservatorio. Avrebbe a buon diritto potuto guardare certuni come nemici. E invece fra i suoi “nemici” ve ne furono alcuni costretti perfino a tesserne le lodi: «Noi che pure le saremmo stati lealmente avversari, sentiamo attraverso l’opera sua tutto il rispetto e la reverenza che merita», scrisse Romeo Galli («socialista e massone, fiero avversario delle Ancelle del Sacro Cuore, appena espulse dal Conservatorio di San Giuseppe anche per sua azione»)[23]. Nei rapporti con l’Amministrazione del Conservatorio, tanto ostile nei confronti delle religiose, non usò tanto la diplomazia e l’arguzia di intelletto, quanto un modo di fare capace di mettere l’altro al centro dell’attenzione. Di lei hanno testimoniato: «Per lei un errore perdonato era un errore dimenticato»[24].

 

c. L’educazione

Per un profilo completo della Serva di Dio Lucia Noiret, non si può trascurare la sua missione educativa. L’educazione, come sappiamo, si può considerare fra le forme più alte di carità verso il prossimo. Suor Lucia, della Congregazione delle Suore di Carità, viene a Imola dopo avere ricevuto a Napoli una prima formazione come religiosa e come maestra.

Non è passato inosservato ad alcuni biografi fin dalla prima ora, come Imola già possieda, nella pagina più gloriosa della storia di questa Chiesa, la figura di un insegnante: San Cassiano, maestro di scrittura o, se si vuole, di stenografia. Lo si ricorda come un «maestro venerando per età, saggezza e virtù»[25], quando poi i fatti andarono come gli imolesi tutti ben sanno ed egli diede nel martirio la più alta testimonianza di fede ed il più grande insegnamento sull’amore che si dona. La figura della Serva di Dio Lucia Noiret educatrice riannoda i fili di questa storia di sacerdoti, religiosi e laici santi che hanno fatto dell’insegnamento e dell’accompagnamento il campo di una straordinaria esemplarità.

Anche a proposito della Noiret educatrice si possono richiamare alcuni temi. Per educare è necessario darsi un metodo e c’è chi evidenzia il metodo educativo della Noiret come originale. D’altra parte erano anni di fermento dal punto di vista della pedagogia, basti pensare anche solo a come venne accolto e recepito il nuovo modo di San Giovanni Bosco di crescere i giovani, il cosiddetto “metodo preventivo”. Madre Noiret non stenderà mai un trattato sull’educazione, eppure tutta la sua esistenza, si potrebbe dire dall’adolescenza fino alla morte, fu dedicata ad educare. È stato scritto: «Che Suor Lucia possedesse l’arte di insegnare con amore, con profitto, quasi con diletto, lo sentiremo spesso ripetere dalle sue numerose alunne»[26]. Ebbe a cuore l’educazione prima delle ragazze del Conservatorio, che rimanevano in quella casa anche fino all’età matura; poi delle religiose del nuovo Istituto da lei fondato, delle quali aveva quasi una responsabilità ancora più grande nell’aiutarle a discernere e maturare la loro vocazione; infine dei più piccoli.

Madre Lucia vuole che le sue educande e le sue religiose siano allegre, leali e capaci di gustare il bello e il buono. Il suo si potrebbe dire un “metodo integrale”, che non si ferma a fornire nozioni finché non è arrivata a toccare il cuore vivo, il centro delle emozioni, dei sentimenti e la fucina delle scelte. Obiettivo del suo lavoro educativo è che le giovani stiano bene con sé stesse, con gli altri e col mondo circostante, perché questo vogliono dire l’allegria, la lealtà e la capacità di gustare il bello e il buono. Era capace anche di rimproverare, come scrive una che fu sua alunna: «Era la maestra che più mi incuteva timore; però non mi offendevano le sue parole, né mai ebbi sentimenti di rivolta verso di lei. Perché dunque io, e quasi tutte noi, non servavamo rancore dopo le sue sgridate, alle volte anche un po’ aspre? L’esperienza aiutando i ricordi di allora mi risponde: perché erano sempre giusti, mai una sola volta causati da incostanza d’umore, e soprattutto perché capivamo benissimo che l’odio era per il peccato, non per il peccatore. Non faceva distinzione di grado sociale, né di doti fisiche o intellettuali; ci amava tutte di eguale affetto e mai ci rattristò inutilmente»[27]. Lei stessa diceva alle sue Suore: «Correggete le alunne; se rimangono coi difetti, è colpa nostra, perché non le abbiamo corrette»[28]. Un ruolo importante nel metodo educativo aveva il lavoro, l’attività, alternativo all’ozio e all’eccessivo riposo.

Aspetto fondamentale nel sistema educativo della Noiret era la scelta di quelle che avrebbero lavorato con lei nell’educazione. Rimasta sola al Conservatorio nel 1873, pensò di rivolgersi alla sua Chambéry, luogo che sapeva fiorente di vocazioni alla vita religiosa. Scrisse alle Suore di San Giuseppe, presso le quali aveva lei stessa studiato, e le fu risposto «che ne avevano alcune ben disposte, ma che conveniva andarle a prendere»[29]. La Madre andò quindi in Savoia e di là portò a Imola le prime compagne, dal cognome di suono francese: DidierGaiffierDardelGautierExertierGrangeat. Fra le primissime, Suor Giuseppina Papotti, di origine ferrarese. Cosa cercava Suor Lucia Noiret nelle educatrici del suo Conservatorio? Le voleva «istruite, energiche e piissime»[30]. Organizzava lei stessa della formazione delle maestre, che mandava a formarsi a proprie spese e a spese dell’Istituto, purché fossero ben preparate. Le voleva energiche, perché riteneva che come Ancelle del Sacro Cuore dovessero temprarsi a spendersi in tutto e per tutto. Le voleva piissime, perché riconosceva che il cuore ha bisogno di riempirsi d’amore per spendersi nella carità. In tal modo nel sistema educativo della Noiret entrarono sempre persone preparate a livello umano e professionale.

Da ultimo si può dire che la Serva di Dio Lucia Noiret fu maestra perché prima di tutto era maestra di fede. Diceva: «Dalla fede ci è venuta la risposta a tutti i bisogni e gli interrogativi dell’anima assetata di certezza e di infinito»[31]. Educare alla fede non era per lei un aspetto dell’educazione: era educare. Insegnando Dio, additando il Sacro Cuore, lei educava ad aprire il cuore e la mente verso ogni cosa della realtà. «Lo spirito di fede – diceva – fa vedere Dio in tutto e dappertutto. (…) Vi animerà a fare meglio i vostri impieghi, perché se noi li guardassimo solo con la ragione, troveremmo fatiche insopportabili»[32].

Su questo aspetto dell’educazione vorrei soffermarmi un po’, anche a partire dal lavoro del Sinodo dei Vescovi del 2018, dedicato ai giovani, e dalla successiva Esortazione apostolica post-sinodale di Papa Francesco, dal titolo Christus vivit.

I sociologi dicono che l’identità dei giovani oggi ha un alto grado di plasticità: le loro personalità appaiono votate a essere fluide e multiformi, in continuo divenire, secondo gli interessi del momento, delle circostanze, dei gruppi di riferimento e dell’interpretazione degli eventi; non ultimo, anche secondo le modalità di un’auto-confezionata immagine di sé, simile al “profilo” da postare nei social network. Di fronte allo schiacciamento sul presente e l’alta esposizione alla demotivazione, quando manca un terreno fertile e incoraggiante, serve oggi un’educazione all’attesa, che permetta di trasformare i desideri in progetti di vita, con scelte fatte oggi che impegnino positivamente verso il domani. Serve anche una maggiore capacità di gestire la frustrazione e di imparare dagli errori, non considerandoli come fallimenti ma come parte di un percorso di crescita.

In positivo, le ricerche sociologiche registrano un alto livello di preferenza giovanile per i valori dell’amicizia, dell’amore, in un certo senso anche della famiglia, della solidarietà, del dialogo e dell’inclusione. L’utilizzo della realtà virtuale può favorire in loro un ripensamento “creativo” del mondo e una maggiore possibilità comunicativa. Se da un lato tende a diminuire la fiducia verso le istituzioni, dall’altro aumenta l’importanza delle relazioni più prossime e genuine. Sono queste relazioni che aiutano a superare false convinzioni, diffidenze, e diventano occasioni di incontro. Il bisogno dei ragazzi e dei giovani, oggi, è bisogno di luoghi concreti di incontro e di confronto.

Queste rapide “pennellate” non pretendono di offrire un’immagine esaustiva della realtà giovanile. Sono tuttavia utili per comprendere alcuni aspetti dell’emergenza educativa e quindi chi sono in realtà i nostri interlocutori quando, nei diversi ruoli che ricopriamo, educhiamo o, più in generale, ci poniamo «domande su come tenere viva l’esperienza generativa della fede cristiana»[33]. Lo sguardo della Chiesa sui giovani è uno sguardo necessariamente realistico e disincantato, ma non può non essere fiducioso e pieno di speranza, fermamente persuasi che il messaggio del Vangelo non passa di moda e, anzi, ha moltissimo da dire proprio alle nuove generazioni.

La tentazione allo scoraggiamento è una prospettiva inadeguata non soltanto dal punto di vista sociologico, come abbiamo osservato, ma anche dal punto di vista pastorale, perché tale atteggiamento rivela in definitiva l’incapacità di riconoscere che Dio continua ad agire nell’oggi e ad attrarre misteriosamente gli uomini a sé.

Per quanto riguarda la fede, si parla spesso dei giovani come di una “generazione incredula”. Figli di una società altamente secolarizzata, come quella in cui viviamo, non potrebbe apparire diversamente. L’affermazione tuttavia che i giovani di oggi sono increduli esige di essere attentamente verificata: il fatto che i giovani disertino le nostre chiese e le nostre liturgie, che essi contestino o più comunemente snobbino alcune convinzioni cristiane in tema di dottrina e, soprattutto, di morale, che pochi tra loro si dichiarino disponibili al ministero ordinato o alla consacrazione religiosa, non significa necessariamente che i giovani non credano più. Gli studiosi mettono in rilievo il fatto che la dimensione della fede non è elaborata dai giovani in maniera formale, ma semmai viene metabolizzata sulla scia della scelta personale, dell’opzione non vincolante, come un sistema aperto. Oggi si fa strada, nelle coscienze giovanili, una diffusa disposizione verso una religiosità soggettivo-emotiva, che si manifesta più mediante la via simbolica che mediante l’uso della ragione strumentale. Anche in sintonia con le esigenze del “sé profondo” post-moderno, la realtà giovanile è meno pervasa dalla razionalità di quanto appaia in superficie.

Su questo punto Charles Taylor ha scritto pagine illuminanti, che invitano alla cautela nel mettere a confronto epoche profondamente diverse tra di loro sul versante religioso: un conto è aver fede ed esprimere una pratica religiosa in una società in cui è praticamente impossibile non credere in Dio; altro conto è essere credenti e praticanti in un’epoca in cui la fede – anche per il credente più incrollabile – rappresenta solo un’opzione tra le tante. È il clima prevalente che sta caratterizzando da tempo le società in cui viviamo, foriero non solo di tensioni e di problemi dal punto di vista religioso, ma anche di non poche chances e sfide per una fede che alimenti anche oggi la sete di infinito[34].

Papa Francesco ha voluto unire insieme, nel Sinodo del 2018, i giovani e il discernimento vocazionale. Diceva il Documento preparatorio: «Prendere decisioni e orientare le proprie azioni in situazioni di incertezza e di fronte a spinte interiori contrastanti è l’ambito dell’esercizio del discernimento»[35]. Si comprende bene, dunque, come non si possa parlare di realtà giovanile, con tutti gli aspetti di “incertezza” e “spinte interiori contrastanti”, senza considerare la realtà del discernimento. Il Sinodo ha poi stretto l’attenzione su una dimensione particolare del discernimento, cioè sul discernimento vocazionale, che è il «processo con cui la persona arriva a compiere, in dialogo con il Signore e in ascolto della voce dello Spirito, le scelte fondamentali, a partire da quella sullo stato di vita»[36]. Un processo che – dice lo stesso Documento preparatorio – si articola secondo tre passaggi fondamentali: riconoscere, interpretare, scegliere. Anche la figura della Serva di Dio Lucia Noiret, con il suo percorso vocazione prima e con l’espressione poi del suo carisma fondativo, ci conduce a riflettere su questo tema, che mette in luce come, nella pastorale ordinaria, ci sia un collegamento evidente e per così dire sistematico fra pastorale giovanile e pastorale vocazionale: ogni uomo è un chiamato, dunque ogni uomo ha una vocazione da dover discernere. Riconoscere «una inclusione reciproca tra pastorale giovanile e pastorale vocazionale»[37], permetterà di evitare un duplice pericolo: il pericolo che la pastorale giovanile, da sola, si riduca a giovanilismo, esaurendosi nella volontà di contatto con i giovani senza educarli a rispondere all’appello di Dio a una vita in pienezza; e il pericolo che la pastorale vocazionale, da sola, si riduca a elitarismo, dando l’idea che solo alcuni sono chiamati – quelli cioè “tagliati” per diventare sacerdoti o religiosi – mentre tutti gli altri sono in fondo abbandonati a se stessi, costretti a decidere in totale autonomia cosa fare della loro vita. Sono da lodare tutte le esperienze in atto di pastorale giovanile, in cui questo viene vissuto con serietà ed impegno, dove, senza particolari iniziative o percorsi, si accompagnano ordinariamente i giovani nelle loro concrete situazioni di vita, a trovare e vivere ad esempio il lavoro o a formarsi una famiglia.

Il discernimento – insegnano i maestri di spiritualità – è caratterizzato da uno stile evangelico fatto di un duplice ascolto, ascolto dello Spirito e ascolto della realtà, mettendo da parte la tentazione dell’astrattezza, del protagonismo, dell’eccessiva sicurezza di sé e di quella freddezza che crea distanza. Mettendo da parte anche la rigidità pastorale che talvolta è, in realtà, un mettersi a riparo, un mantenersi a distanza dall’esistenza concreta degli altri che complica certo la vita ma, come dice sempre l’Evangelii gaudium, la «complica sempre meravigliosamente»[38]. Il discernimento non riguarda semplicemente un problema da risolvere o una decisione da prendere; piuttosto, è un prendersi cura della persona nel suo cammino verso Dio.

Possiamo quindi avviarci alla conclusione, con alcune sottolineature sintetiche su quanto appena detto sul tema dell’educazione dei giovani, sostenuti dall’esperienza di testimoni appassionati e credibili, quali la Serva di Dio Lucia Noiret.

La prima sottolineatura è che nella proposta educativa della fede «ridurla a poche norme significa renderla inefficace oltre che impoverirla»[39]. Al cuore dell’Esortazione apostolica Christus vivit di Papa Francesco c’è la consapevolezza che «a ciascun giovane, nelle circostanze concrete in cui si trova, la Chiesa non ha altro da offrire se non l’incontro con quel Dio vivo che essa continua a sperimentare come amore, come salvezza e come fonte di vita, sapendo che sarà questo incontro a dischiudere nuove possibilità di orientamento per la vita di ciascuno».[40] Nel capitolo quarto di quel testo Papa Francesco rivolge «direttamente, in seconda persona, a ciascun giovane l’annuncio che viene dalla fede: Dio ti ama; Gesù Cristo ti salva, è vivo e desidera che tu viva. Egli è sempre con te e non ti abbandona!». Si tratta di un annuncio che costituisce anche, intrinsecamente, una «chiamata che scuote e invita a mettere in gioco la libertà»[41]. «Egli è sempre con te e non ti abbandona» era una delle frasi più utilizzate anche da Madre Lucia Noiret, che invitava le giovani che educava ad avere una piena confidenza nel Cuore di Gesù.

La seconda sottolineatura è l’impossibilità di vivere la pastorale giovanile in maniera autonoma. Nessuno può dire “faccio tutto io”, pena un’azione pastorale inefficace. «Un tratto caratteristico di questo stile di Chiesa è la valorizzazione dei carismi che lo Spirito dona secondo la vocazione e il ruolo di ciascuno dei suoi membri»[42]. La sinodalità è uno stile che chiama in causa il dialogo fra le generazioni, dal momento che «sarebbe sciocco non accettare il gioco delle generazioni, che è vecchio come il mondo. Da sempre i giovani, che pure appartengono alla famiglia e alla società che li ha generati, si collocano quasi naturalmente in antitesi con il mondo degli adulti. Questo confronto rende il compito degli adulti sempre arduo, ma permette ai giovani di far emergere le domande più importanti, di costruire le proprie biografie»[43]. Madre Noiret ha fatto nascere una famiglia religiosa, dimostrando con la sua testimonianza come i veri educatori siano costruttori di comunità, siano autorità generative[44].

Terzo aspetto che vorrei sottolineare è il potenziale di annuncio del Vangelo che gli stessi giovani hanno rispetto ai loro coetanei. Siamo consapevoli che «quanti professano altre fedi o si dichiarano non religiosi, e coloro che per tante ragioni sono segnati da dubbi, traumi o errori, faticherebbero a integrarsi nella pastorale ordinaria, ma non per questo hanno meno bisogno di trovare porte aperte e di essere sostenuti a compiere il bene possibile»[45]. Un lavoro pastorale con i giovani richiede di rendere loro stessi testimoni dell’incontro che hanno fatto, del bene che nella comunità cristiana hanno sperimentato. In questo nostro tempo, la proposta dei nostri luoghi di incontro non può essere fatta soltanto da adulti per i giovani, ma dai giovani verso i loro coetanei. In quel luoghi troveranno poi adulti capaci di prenderli sul serio. L’impegno missionario oggi, in cui anche l’istituto delle Ancelle del Sacro Cuore si è da decenni impegnato, richiede essenzialmente questo: educare educatori, accompagnare ad essere a propria volta attrattivi e generativi.

In conclusione, Papa Francesco indica l’orizzonte ultimo della proposta «attraverso il recupero di una parola tradizionale come “estasi”, assunta nel significato originario: l’incontro con Dio produce estasi non perché strappa il credente dalla realtà e dalla trama di relazioni in cui è inserito, ma perché lo spinge a uscire da se stesso, superando i suoi stessi limiti perché si lasci conquistare dalla bellezza dell’amore per gli altri e si consacri alla ricerca del loro bene»[46]. Questo ci insegna la Serva di Dio Lucia Noiret, una contemplativa in azione. La domanda che il Papa rivolge ai giovani - «Avete il coraggio di osare questa estasi?» - è la sfida del lavoro educativo della Chiesa oggi, la provocazione positiva per la realtà dei giovani e il discernimento della vocazione di ciascuno di loro. La preghiera e l’esempio dei testimoni ci aiuti a non perdere mai di vista quanto è grande ed entusiasmante questo compito che ancora oggi ci attende.

 

    Imola, Chiesa di San Pio da Pietrelcina - 29 marzo 2022

 

+ Fabio Fabene

Arcivesvovo titolare di Montefiascone

Segretario

 

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[1] A. Franzini, Savoiarda Romagnola Santa, Edizioni Paoline, Modena 1957, p. 44.

[2] L. Spada, Biografia di Suor Lucia Noiretpro manuscripto, Faenza 1919, p. 19.

[3] A. Bughetti, Suor Lucia Noiret. Fondatrice delle Ancelle del S. Cuore di Gesù, Scuola Tipografica Salesiana, Bologna 1915, p. 36.

[4] Bughetti, p. 36-37

[5] Franzini, p. 56

[6] Onofri, p. 33.

[7] A. Ferri, Una contemplativa in azione. Madre Lucia Noiret, fondatrice in Imola delle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù sotto la protezione di San Giuseppe e storia della congregazione, Campomarzo Editrice, Bologna 2003, p. 213.

[8] Franzini, p. 131.

[9] Bughetti, p. 38.

[10] Ferri, p. 228.

[11] Ferri, p. 233.

[12] Ferri, p. 229.

[13] Ibid.

[14] Spada, p. 47.

[15] Bughetti, p. 52.

[16] Onofri, p. 78.

[17] Franzini, p. 136.

[18] Onofri, p. 53.

[19] Franzini, p. 139.

[20] Onofri, p. 54.

[21] Franzini, p. 138.

[22] Franzini, p. 140.

[23] Ferri, p. 157-158.

[24] Franzini, p. 138.

[25] Franzini, p. 36.

[26] Franzini, p. 41.

[27] Spada, p. 8.

[28] Ferri, p. 234.

[29] Spada, p. 13.

[30] Spada, p. 13.

[31] Franzini, p. 120.

[32] Franzini, p. 122.

[33] M. Falabetti, «Invito alla lettura» in Esortazione apostolica postsinodale Christus vivit del Santo Padre Francesco ai giovani e a tutto il popolo di Dio, Elledici, Torino 2019, p. 3.

[34] C. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009.

[35] Documento Preparatorio, II, 2.

[36] Ibid.

[37] Ibid., III, 1.

[38] Ibid., n. 308.

[39] Falabretti, p. 4.

[40] G. Costa-R. Sala, «Guida alla lettura» in Esortazione apostolica postsinodale Christus vivit del Santo Padre Francesco ai giovani e a tutto il popolo di Dio, Elledici, Torino 2019, p. 16.

[41] Ibid., p. 17.

[42] Documento finale. Lettera ai giovani, n. 123.

[43] Falabretti, p. 5.

[44] G. Costa-R. Sala, «Rilancio del cammino» in Esortazione apostolica postsinodale Christus vivit del Santo Padre Francesco ai giovani e a tutto il popolo di Dio, Elledici, Torino 2019, p. 183.

[45] Costa-Sala, «Guida alla lettura», p. 21

[46] Costa-Sala, «Rilancio del cammino», p. 184-185.