Testimone della carità

Sedici anni fa la beatificazione di Antonio Rosmini

Testimone della carità

Papa Francesco, nel suo recente motu proprio Ad theologiam promovendam, ha ribadito che il beato Rosmini «considerava la teologia una espressione sublime di “carità intellettuale”, mentre chiedeva che la ragione critica di tutti i saperi si orientasse all’Idea di Sapienza» (n. 7).

Già Benedetto XVI, che ha più volte citato Rosmini nei suoi angelus, nell’enciclica Caritas in veritate, aveva tracciato questo itinerario della carità verso la verità, delineando un presupposto antropologico non genericamente cristiano, ma cattolico. Il fare bene, che per lo più è nascosto agli occhi del mondo, misura il nostro grado d’adesione alla verità. Anzi, il vivere effettivamente nella carità amplia sempre di più la nostra visione della verità. Questa si rivela solo a una ragione sensibile all’amore di Dio e del prossimo e non alla fredda ragione speculativa che non pratica l’amore disinteressato. Questo è quello che fece Rosmini.

Ecco perché, agli occhi di non pochi suoi contemporanei scevri di preconcetti e di pregiudizi, Rosmini apparve come un santo. Il religioso vincenziano Giovanni Manzi, che conversò con lui e lo servì alla messa, ricorda «la riverenza e la divozione con cui celebrava il Santo Sacrificio». Altri danno testimonianza dello stesso tenore nell’avvicinare sia i “piccoli” sia gli studiosi. Quando era a Napoli si intratteneva volentieri con i giovani lazzaristi che studiavano filosofia. Non disdegnava mai di ascoltare le loro difficoltà «e rischiarare i loro dubbi», con umiltà e dolcezza. Come dimenticare poi di quanti lo andavano a trovare nella sua stanza per porre domande sui filosofi tedeschi contemporanei, proprio mentre egli stava scrivendo l’Introduzione del Vangelo secondo Giovanni commentata. «Era una meraviglia sentirlo discorrere con tanta facilità e padronanza di quei nebulosi scrittori Alemanni», come pure quando parlava delle alterazioni «sofferte dalle Opere di Aristotele» nel corso dei secoli.

Aveva, verso tutto quello che faceva, un cristiano distacco ed evidenziava di ricercare solo il volere di Dio. Basti ricordare un passo di una sua lettera: «Se non fossi intimamente persuaso che Dio solo sia stato quello che abbia cominciato l’Istituto della Carità, dovrei ben diffidare della sua riuscita (...) Io d’altro lato conosco troppo, che la cagione di questi ostacoli sono i miei peccati; e che sarebbe buono disaggravare l’Istituto della Carità della mia persona: a ciò pensai tante volte, ma non ci trovo il verso».

Fedele al Papa, e lo aveva dimostrato con Pio VII, Pio VIII, Gregorio XVI e infine Pio IX, ribadisce che «i diritti della verità sono sacri» e della verità si fida. Servire la verità è la più grande peculiarità della carità. Ecco perché nelle sofferenze affina il suo senso profetico e i suoi scritti sono una testimonianza della verità che, prima o poi, trionfa sempre, bisogna solo avere la pazienza di attendere i tempi di Dio, che non sono i nostri.

Per Rosmini, basta leggere i suoi Discorsi, nell’animo umano c’è come «una voce interiore che l’avvisa, dover consistere nella verità la sua beatitudine». Questa voce la sentono solo quanti non sono schiavi delle passioni, soprattutto mondane, perché costoro non amano altro «che udire quel falso che le lusinga?». Prediligono, quindi, i successi mondani, anche se a discapito di altri. Lontani dalla verità hanno «lontanissima la sincera carità» e vivono nella frivolezza dello spirito. Costoro dovrebbero porsi alcune domande: «Ma qual mondano intende mai queste voci di verità? E qual orecchio non s’indura ed assorda nel fracasso del mondo?». Quanti non sentono più il bisogno di queste domande, diventano nemici di Dio perché sono amici del secolo.

Costoro fanno certo soffrire gli amanti della verità e della carità, ma a loro sfugge il vero segreto del dono di Dio. «Iddio fa sentire al cuore de’ servi suoi dolcezze sconosciute, diletti superni, sicché l’uomo seguace di Cristo, a malgrado di sue privazioni e mortificazioni, è troppo più felice che non l’uomo del mondo».

Questo perché il Signore dona quella verità per la quale ci ha creati. Ai prescelti non resta che rifugiarsi in questa verità, anticipo della vita eterna. Non si esagera dicendo che Rosmini capì come pochi che la verità rende liberi e, per questo, l’amò al di sopra di tutto.

La verità, scrisse in una lettera, «ha bisogno di battaglie altrettanto quanto la virtù. E nel procedere contro vento si ha la fortuna di assimilare dal vivo verità nascoste ai più». Verità che si pagano con la sofferenza, le cui spine non mancano mai. Anzi, «la loro presenza costituisce un sigillo di autenticità sulla missione ricevuta (non c’è amore senza dolore) (...) attraverso la sofferenza l’intenzione si purifica e si rafforza (chi non sa soffrire e morire, non sa amare)». È questa una convinzione che Rosmini matura non in un momento di estrema sofferenza interiore, ma che sublima per aver costantemente esercitato.

Ai suoi seguaci ha sempre ribadito «che ciascuno qui rinunziasse ad ogni malevolenza, odio o rancore», ricordando la perenne legge di Cristo che è «amore e verità; ed io sono inviato ad annunziarvi sì dolce legge». Questa legge va esercitata soprattutto verso quanti ci fanno soffrire e ci fanno del male. «Oh cosa desiderabile a tutti e beata, a’ cristiani necessaria». Come a dire che carità e verità si incrociano nella misericordia, pietra angolare della nostra religione.

 

L’Osservatore Romano, martedì 21 novembre 2023, pagina 8

 

Rocco Pezzimenti