La Chiesa ha bisogno di testimoni santi

La prefazione del Papa a un libro sui martiri nell’Argentina degli anni Settanta

La Chiesa ha bisogno di testimoni santi

La storia antica del martirio dei cristiani non si è mai interrotta. Ideologie folli continuano ad alimentare odio e uccidere tanti, solo perché non hanno smesso di essere discepoli di Gesù. La basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, che ho visitato il 22 aprile 2017, è il luogo memoriale dei martiri cristiani contemporanei affidato alla Comunità di Sant’Egidio da san Giovanni Paolo II.

Lì si respira l’ecumenismo dei martiri. Dà grande forza poter pregare in quell’antica chiesa, in mezzo al fiume, contemplando le reliquie di santi testimoni come Massimiliano Kolbe, davanti al messale di sant’Óscar Romero ancora aperto alla pagina della messa interrotta dal suo martirio, davanti alla Bibbia di Shahbaz Bhatti che ha dato la vita per il dialogo in Pakistan, a quelle dei martiri Dei genocidi africani, di giovani africani e latinoamericani fedeli al Vangelo e non alle leggi delle gange della corruzione, davanti a testimoni del dialogo e dell’amicizia come don Andrea Santoro, circondati dalle vittime dei gulag e dei lager, dai martiri anglicani, ortodossi, in Europa, Asia, Africa, nelle Americhe, laici e religiosi, sacerdoti, vescovi, cardinali che hanno dato la vita. E difronte alla fascia episcopale di mons. Enrique Angelelli, il vescovo de La Rioja, che lì è conservata.

Lì usai due parole: “grazia”, ma anche “odio”, quella parola forte che usa anche Gesù, quando ci dice anche: «Non spaventatevi! Il mondo vi odierà; ma sappiate che prima di voi ha odiato me». Il martire può essere pensato come un eroe, ma la cosa fondamentale del martire è che è stato “graziato”: perché è la grazia di Dio, non il coraggio, che ci fa martiri. La Chiesa oggi ha un gran bisogno di testimoni, dei santi di tutti i giorni, quelli della vita ordinaria, e di quelli che hanno il coraggio di accettare la grazia di essere testimoni sino alla fine, fino alla morte.

Questo libro ci parla dei martiri argentini del nostro tempo, ed è frutto di una ricerca storica accurata, che è durata nel tempo. In questi anni la memoria è stata tenuta viva anche a Buenos Aires con una preghiera annuale, cui ho partecipato più volte. Ci sono tempi e luoghi, quando il principe di questo mondo utilizza la calunnia e si prende l’anima e acceca le menti, così i cristiani diventano un bersaglio e finiscono “nell’occhio del ciclone”, perché testimoniano Gesù e il suo amore.

Il bel libro del professor Marco Gallo dell’Università Cattolica di Buenos Aires è un aiuto per conoscere e capire la santità, attraverso la storia. Non ci regala “santini”, ma rende questi testimoni nostri contemporanei. È un libro che fa bene, perché fa vedere sia la forza del male, che i frutti del martirio. E questa è la sconfitta vera degli aguzzini e degli assassini che pensavano di avere vinto. All’origine c’è una prima lista di uomini, donne, preti, vescovi uccisi o scomparsi in Argentina in quegli anni terribili, che è stata ampliata dalla Commissione Nazionale sulla Scomparsa delle Persone. Quando ero cardinale, monsignor Carmelo Giaquinta mi aveva consegnato quella lista, e avevo personalmente invitato a raccogliere tutte le informazioni disponibili su quei cristiani e sulle circostanze dello spargimento del loro sangue in quegli anni.

Ho incoraggiato io stesso il lavoro che il professor Gallo ha raccolto in questo libro. Era una grande lista di vittime, e non sappiamo ancora tutto. Non ci sono dubbi però che tra di loro ce ne sono almeno alcuni che sono autentici martiri, perché l’odio della fede è stata la causa diretta e principale del loro martirio. In quegli anni la frase di Tertulliano, «il sangue dei martiri è seme dei cristiani», è diventata particolarmente vera per l’Argentina e resta vera in altre parti del mondo, anche oggi.

La vita di alcuni di loro si era intrecciata con la mia, come quella dei padri pallottini della chiesa di San Patricio, nel quartiere portegno di Belgrano a Buenos Aires, i padri Pedro Dufau, Alfredo Leaden, Alfredo Kelly, e i seminaristi Salvador Barbeito ed Emilio Barletti, uccisi il 4 luglio 1976. Li attaccarono proprio perché, nel cuore di Buenos Aires, non doveva avere presa quella predicazione evangelica. Era una ribellione dell’odio, che non sopportava la Chiesa quando propone il cambiamento vero che nasce solo da un cuore convertito all’amore degli altri. Avevano un obiettivo: eliminare l’influenza della Chiesa, fatta di libertà, verità e amore.

Nel libro di Gallo, assieme alle altre, c’è la storia di monsignor Angelelli, riconosciuto beato il 17aprile 2019, un vescovo di cui ho un ricordo indelebile. L’ho conosciuto da vicino poco prima di diventare provinciale dei gesuiti di Argentina, per gli esercizi spirituali, assieme al mio superiore e agli altri padri consultori.

La prima volta eravamo arrivati a La Rioja in un giorno tristemente storico, il 13 giugno 1973, quando gli agrari della zona avevano organizzato un attacco a sassate, una lapidazione vera per provare a fare andare via il vescovo e i suoi collaboratori, che è stata chiamata la “sassaiola di Anillaco”. Il giorno dopo monsignor Angelelli ci predicò il ritiro spirituale. Furono giorni indimenticabili, come il suo insegnamento vivente, «un orecchio alla parola di Dio e un orecchio al popolo». Davvero vedemmo una Chiesa unita, e il popolo con il suo pastore. Due mesi dopo, il 14 agosto 1973, da giovane padre provinciale, ero tornato lì con padre Pedro Arrupe, preposito generale dei gesuiti.

Monsignor Angelelli venne a prenderci in macchina direttamente sulla pista, perché era stata organizzata una manifestazione per non farci scendere dall’aereo e farci tornare indietro. Invece quel pomeriggio, alla Casa della Cultura, potemmo fare una riunione con tutti gli operatori pastorali. Alla fine una donna fiera e coraggiosa, impegnata, ha chiesto: «Padre, ci dica, secondo lei quello che ha visto e ascoltato è il Concilio Vaticano II o no?». E il padre Arrupe rispose: «Questo è ciò che vuole la Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II». Monsignor Angelelli era un innamorato del suo popolo, che lo accompagnava lungo la strada, fino alle periferie, sia geografiche che esistenziali. Ricordo l’affetto con cui accarezzava gli anziani, con cui cercava i poveri e i malati, quando chiedeva giustizia. Lui era convinto che l’uomo fatto di fango nascondesse dentro di sé un progetto della Trinità, un progetto di Dio, un misto di terra e cielo. Dal

travaglio argentino, sangue e dolore, quell’uomo di fede e di preghiera vedeva nascere una nuova generazione non più prigioniera dell’odio e del rancore, ma del perdono e dell’amore. Ma quella di Wenceslao, Carlos e del vescovo Enrique non è una memoria isolata. Ho voluto partecipare più volte alla memoria dei martiri contemporanei a Buenos Aires, con la Comunità di Sant’Egidio, e la storia aggiunge tanti altri nomi e tante altre memorie.

Questo libro ci aiuta a ricordare e apre una finestra non solo sull’Argentina, ma su un mondo di testimoni della fede che continuano a versare il proprio sangue in tante parti del mondo. È un libro che fa bene e da cui può venire tanto bene.