Ignazio di Loyola

Ignazio di Loyola

(1491-1556)

Beatificazione:

- 27 luglio 1609

- Papa  Paolo V

Canonizzazione:

- 12 marzo 1622

- Papa  Gregorio XV

- Basilica Vaticana

Ricorrenza:

- 31 luglio

Sacerdote, che, nato nella Guascogna in Spagna, visse alla corte del re e nell’esercito, finché, gravemente ferito, si convertì a Dio; compiuti gli studi teologici a Parigi, unì a sé i primi compagni, che poi costituì nella Compagnia di Gesù a Roma, dove svolse un fruttuoso ministero, dedicandosi alla stesura di opere e alla formazione dei discepoli, a maggior gloria di Dio. Patrono universale della gioventù

  • Biografia
  • Omelia
  • LETTERA APOSTOLICA
"Molta sapienza unita a una moderata santità è preferibile a molta santità con poca sapienza"

 

Íñigo López de Loyola nacque nel 1491 ad Azpeitia, nei Paesi Baschi. Essendo un figlio cadetto, era destinato alla vita sacerdotale, ma la sua aspirazione era quella di diventare cavaliere. Suo padre lo inviò perciò in Castiglia, alla corte di don Juan Velazquez de Cuellar, ministro del re Ferdinando il Cattolico.

La vita di corte formò il carattere e le maniere del giovane, che prese a leggere i poemi e a corteggiare le dame. Alla morte di don Juan, Íñigo si trasferì alla corte di don Antonio Manrique, duca di Najera e viceré di Navarra, e al suo seguito partecipò alla difesa del castello di Pamplona, assediato dai francesi. Qui, il 20 maggio del 1521, fu ferito da una palla di cannone che lo rese zoppo per tutta la vita.

La lunga convalescenza fu per lui l’occasione di leggere la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine e la Vita di Cristo di Lodolfo Cartusiano, testi che influirono enormemente sulla sua personalità votata agli ideali cavallereschi, convincendolo che l’unico Signore che valeva la pena di seguire era Gesù Cristo.

Deciso a recarsi in pellegrinaggio in Terra Santa, Íñigo fece tappa al santuario di Montserrat, dove fece voto di castità e scambiò le sue ricche vesti con quelle di un mendicante. Barcellona, da dove avrebbe dovuto imbarcarsi per l’Italia, era in preda ad una epidemia di peste, e Íñigo dovette fermarsi a Manresa. Questa tappa obbligata lo costrinse ad un lungo periodo di meditazione e di isolamento, durante il quale scrisse una serie di consigli e riflessioni che, rielaborati in seguito, formarono la base degli Esercizi Spirituali.

Giunse finalmente in Terra Santa e avrebbe voluto stabilirvisi, ma il superiore dei Francescani glielo impedì, giudicando troppo povere le sue conoscenze teologiche. Íñigo tornò quindi in Europa e intraprese gli studi di grammatica, filosofia e teologia, prima a Salamanca e poi a Parigi. Fu proprio nella capitale francese che cambiò il suo nome in Ignazio, in omaggio al Santo di Antiochia di cui ammirava l’amore per Cristo e l’obbedienza alla Chiesa, che sarebbero poi divenuti caratteri fondanti della Compagnia di Gesù.

A Parigi Ignazio conobbe quelli che sarebbero divenuti i suoi primi compagni, fece con loro voto di povertà e progettò di recarsi nuovamente in Terra Santa, ma questo progetto sfumò a causa della guerra tra Venezia e i Turchi. Ignazio e i suoi compagni si presentarono perciò al Papa per obbedire ai suoi ordini. Il Papa disse loro: “Perché andare a Gerusalemme? Per portare frutto nella Chiesa, l’Italia è una buona Gerusalemme".

Papa Paolo III nel 1538 diede l’approvazione canonica alla Compagnia di Gesù che fu da subito animata da zelo missionario: i Preti Pellegrini, o Riformati (solo in seguito assunsero il nome di Gesuiti) vennero inviati in tutta Europa, e poi in Asia e nel resto del mondo, portando ovunque il loro carisma di povertà, carità e obbedienza assoluta alla volontà del Papa.

Uno dei principali problemi che Ignazio si trovò ad affrontare fu la preparazione culturale e teologica dei giovani: per questa ragione formò un corpo di docenti e fondò diversi collegi che negli anni acquistarono una fama internazionale grazie all’altissimo livello scientifico e ad un programma di studi che venne preso a modello anche da Istituti scolastici non religiosi.

Per obbedienza al Papa, Ignazio rimase a Roma a coordinare le attività della Compagnia e ad occuparsi dei poveri, degli orfani e degli ammalati, tanto da meritare l’appellativo di “apostolo di Roma”. Non dormiva che quattro ore a notte, e continuò il suo lavoro e il suo impegno, nonostante le sofferenze procurategli da una cirrosi epatica e da una calcolosi biliare, fino allo stremo delle forze.

Morì nella sua povera cella il 31 luglio del 1556, e le sue spoglie sono conservate nell’altare del braccio sinistro del transetto della Chiesa del Gesù di Roma, uno dei monumenti più belli del Barocco romano.

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IN OCCASIONE DELLA FESTA DI SANT'IGNAZIO

Chiesa del Gesù, Roma
Mercoledì 31 luglio 2013

 

In questa Eucaristia in cui celebriamo il nostro Padre Ignazio di Loyola, alla luce delle Letture che abbiamo ascoltato, vorrei proporre tre semplici pensieri guidati da tre espressioni: mettere al centro Cristo e la Chiesa; lasciarsi conquistare da Lui per servire; sentire la vergogna dei nostri limiti e peccati, per essere umili davanti a Lui e ai fratelli.

1. Lo stemma di noi Gesuiti è un monogramma, l’acronimo di “Iesus Hominum Salvator” (IHS). Ciascuno di voi potrà dirmi: lo sappiamo molto bene! Ma questo stemma ci ricorda continuamente una realtà che non dobbiamo mai dimenticare: la centralità di Cristo per ciascuno di noi e per l’intera Compagnia, che Sant’Ignazio volle proprio chiamare “di Gesù” per indicare il punto di riferimento. Del resto anche all’inizio degli Esercizi Spirituali, ci pone di fronte a nostro Signore Gesù Cristo, al nostro Creatore e Salvatore (cfr EE, 6). E questo porta noi Gesuiti e tutta la Compagnia ad essere “decentrati”, ad avere davanti il “Cristo sempre maggiore”, il “Deus semper maior”, l’”intimior intimo meo”, che ci porta continuamente fuori da noi stessi, ci porta ad una certa kenosis, ad “uscire dal proprio amore, volere e interesse” (EE, 189). Non è scontata la domanda per noi, per tutti noi: è Cristo il centro della mia vita? Metto veramente Cristo al centro della mia vita? Perché c’è sempre la tentazione di pensare di essere noi al centro. E quando un Gesuita mette se stesso al centro e non Cristo, sbaglia. Nella prima Lettura, Mosè ripete con insistenza al popolo di amare il Signore, di camminare per le sue vie, “perché è Lui la tua vita” (cfr Dt 30, 16.20). Cristo è la nostra vita! Alla centralità di Cristo corrisponde anche la centralità della Chiesa: sono due fuochi che non si possono separare: io non posso seguire Cristo se non nella Chiesa e con la Chiesa. E anche in questo caso noi Gesuiti e l’intera Compagnia non siamo al centro, siamo, per così dire, “spostati”, siamo al servizio di Cristo e della Chiesa, la Sposa di Cristo nostro Signore, che è la nostra Santa Madre Chiesa Gerarchica (cfr EE, 353). Essere uomini radicati e fondati nella Chiesa: così ci vuole Gesù. Non ci possono essere cammini paralleli o isolati. Sì, cammini di ricerca, cammini creativi, sì, questo è importante: andare verso le periferie, le tante periferie. Per questo ci vuole creatività, ma sempre in comunità, nella Chiesa, con questa appartenenza che ci dà coraggio per andare avanti. Servire Cristo è amare questa Chiesa concreta, e servirla con generosità e spirito di obbedienza.

2. Qual è la strada per vivere questa duplice centralità? Guardiamo all’esperienza di san Paolo, che è anche l’esperienza di sant’Ignazio. L’Apostolo, nella Seconda Lettura che abbiamo ascoltato, scrive: mi sforzo di correre verso la perfezione di Cristo “perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3,12). Per Paolo è avvenuto sulla via di Damasco, per Ignazio nella sua casa di Loyola, ma il punto fondamentale è comune: lasciarsi conquistare da Cristo. Io cerco Gesù, io servo Gesù perché Lui mi ha cercato prima, perché sono stato conquistato da Lui: e questo è il cuore della nostra esperienza. Ma Lui è primo, sempre. In spagnolo c’è una parola che è molto grafica, che lo spiega bene: Lui ci “primerea”, “El nos primerea”. E’ primo sempre. Quando noi arriviamo, Lui è arrivato e ci aspetta. E qui vorrei richiamare la meditazione sul Regno nella Seconda Settimana. Cristo nostro Signore, Re eterno, chiama ciascuno di noi dicendoci: “chi vuol venire con me deve lavorare con me, perché seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria” (EE, 95): Essere conquistato da Cristo per offrire a questo Re tutta la nostra persona e tutta la nostra fatica (cfr EE, 96); dire al Signore di voler fare tutto per il suo maggior servizio e lode, imitarlo nel sopportare anche ingiurie, disprezzo, povertà (cfr EE, 98). Ma penso al nostro fratello in Siria in questo momento. Lasciarsi conquistare da Cristo significa essere sempre protesi verso ciò che mi sta di fronte, verso la meta di Cristo (cfr Fil 3,14) e chiedersi con verità e sincerità: Che cosa ho fatto per Cristo? Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo? (cfr EE, 53).

3. E vengo all’ultimo punto. Nel Vangelo Gesù ci dice: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà… Chi si vergognerà di me…” (Lc 9, 23). E così via. La vergogna del Gesuita. L’invito che fa Gesù è di non vergognarsi mai di Lui, ma di seguirlo sempre con dedizione totale, fidandosi e affidandosi a Lui. Ma guardando a Gesù, come ci insegna sant’Ignazio nella Prima Settimana, soprattutto guardando il Cristo crocifisso, noi sentiamo quel sentimento tanto umano e tanto nobile che è la vergogna di non essere all’altezza; guardiamo alla sapienza di Cristo e alla nostra ignoranza, alla sua onnipotenza e alla nostra debolezza, alla sua giustizia e alla nostra iniquità, alla sua bontà e alla nostra cattiveria (cfr EE, 59). Chiedere la grazia della vergogna; vergogna che viene dal continuo colloquio di misericordia con Lui; vergogna che ci fa arrossire davanti a Gesù Cristo; vergogna che ci pone in sintonia col cuore di Cristo che si è fatto peccato per me; vergogna che mette in armonia il nostro cuore nelle lacrime e ci accompagna nella sequela quotidiana del “mio Signore”. E questo ci porta sempre, come singoli e come Compagnia, all’umiltà, a vivere questa grande virtù. Umiltà che ci rende consapevoli ogni giorno che non siamo noi a costruire il Regno di Dio, ma è sempre la grazia del Signore che agisce in noi; umiltà che ci spinge a mettere tutto noi stessi non a servizio nostro o delle nostre idee, ma a servizio di Cristo e della Chiesa, come vasi d’argilla, fragili, inadeguati, insufficienti, ma nei quali c’è un tesoro immenso che portiamo e che comunichiamo (2 Cor 4,7). A me è sempre piaciuto pensare al tramonto del gesuita, quando un gesuita finisce la sua vita, quando tramonta. E a me vengono sempre due icone di questo tramonto del gesuita: una classica, quella di san Francesco Saverio, guardando la Cina. L’arte lo ha dipinto tante volte questo tramonto, questo finale di Saverio. Anche la letteratura, in quel bel pezzo di Pemán. Alla fine, senza niente, ma davanti al Signore; questo a me fa bene, pensare questo. L’altro tramonto, l’altra icona che mi viene come esempio, è quella di Padre Arrupe nell’ultimo colloquio nel campo dei rifugiati, quando ci aveva detto – cosa che lui stesso diceva – “questo lo dico come se fosse il mio canto del cigno: pregate”. La preghiera, l’unione con Gesù. E, dopo aver detto questo, ha preso l’aereo, è arrivato a Roma con l’ictus, che ha dato inizio a quel tramonto tanto lungo e tanto esemplare. Due tramonti, due icone che a tutti noi farà bene guardare, e tornare a queste due. E chiedere la grazia che il nostro tramonto sia come il loro.

Cari fratelli, rivolgiamoci a Nuestra Señora, Lei che ha portato Cristo nel suo grembo e ha accompagnato i primi passi della Chiesa, ci aiuti a mettere sempre al centro della nostra vita e del nostro ministero Cristo e la sua Chiesa; Lei che è stata la prima e più perfetta discepola del suo Figlio, ci aiuti a lasciarci conquistare da Cristo per seguirlo e servirlo in ogni situazione; Lei che ha risposto con la più profonda umiltà all’annuncio dell’Angelo: “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38), ci faccia provare la vergogna per la nostra inadeguatezza di fronte al tesoro che ci è stato affidato, per vivere l’umiltà di fronte a Dio. Accompagni il nostro cammino la paterna intercessione di sant’Ignazio e di tutti i Santi Gesuiti, che continuano ad insegnarci a fare tutto, con umiltà, ad maiorem Dei gloriam.

LETTERA APOSTOLICA
CON LA QUALE IL SANTO PADRE
PIO XI
RICORDA IGNAZIO DI LOYOLA E FRANCESCO SAVERIO
NEL TERZO CENTENARIO DELLA LORO CANONIZZAZIONE
 

«MEDITANTIBUS NOBIS»

 

Al Reverendo Padre Wladimiro Ledóchowski,
Generale della Compagnia di Gesù.

Diletto figlio, salute e Apostolica Benedizione.

Quando, all’inizio del Nostro Sommo Pontificato, Noi meditavamo come avremmo potuto procurare alla Santa Chiesa sia migliori condizioni interne, sia favorevoli sviluppi all’esterno, come richiesto fondamentalmente dal Nostro ufficio, è giunto, con il ricordo di altri Santi, anche quello di Ignazio di Loyola e di Francesco Saverio, dei quali dovrà celebrarsi con grandiosa solennità il terzo centenario della canonizzazione. L’uno, infatti, per disposizione divina, fu dato come aiuto alla Sposa di Cristo la quale stava iniziando un nuovo periodo della propria vita, in cui lotta e contrasto erano sempre presenti; l’altro, nella sua instancabile operosità per la diffusione della luce evangelica, andò adorno di tanti e così rilevanti carismi dello Spirito Santo da sembrare l’erede della virtù e dello zelo che rifulsero nei primi Apostoli.

Per la verità, la stagione di pericoli nella quale Ignazio accorse in aiuto della Chiesa non è ancora finta, in quanto quasi tutti i mali presenti derivano da quella radice; e se oggi, più che mai, « una porta grande e propizia è aperta » [1] al Vangelo di Gesù Cristo, ciò avviene specialmente nelle regioni dove lavorò Saverio. Pertanto, diletto figlio, se Ci è sembrato opportuno scriverti questa Lettera di elogio del tuo Padre Legislatore e del maggiore dei suoi figli, ciò non avviene soltanto nell’interesse del tuo Ordine, ma per il bene comune. Infatti, è di grande importanza che la Cristianità fiorisca ogni giorno di più per l’insegnamento dell’uno e si diffonda, rinverdendo, per l’impegno dell’altro.

Certamente è vero che quanti meritano dall’autorità della Chiesa la lode di santità hanno tutti in comune di essere eccellenti in ogni genere di virtù; tuttavia, come « ogni stella differisce da un’altra nello splendore » [2], così i Santi si distinguono con ammirabile varietà l’uno dall’altro per la loro particolare eccellenza o in questa o in quella virtù. Ora, se riguardiamo la vita d’Ignazio, restiamo anzitutto mossi ad ammirazione dalla magnanimità di un uomo che, avido di procurare la maggior gloria di Dio, non pago di impiegare se stesso in tutti gli uffici del sacro ministero e di abbracciare per la salute delle anime ogni genere di beneficenza cristiana, si associò dei compagni pronti ed ardenti come in un drappello di scelta milizia, per dilatare il regno di Dio tra i fedeli e tra i barbari. Ma chi penetri più addentro la vicenda, facilmente scorgerà quale nota distintiva di Ignazio lo spirito insigne di ubbidienza, e come missione a lui particolarmente assegnata da Dio il condurre gli uomini ad esercitare con più amore questa stessa virtù.

Infatti, chi conosce il tempo in cui visse Ignazio, non ignora che il principale tra tutti i mali onde fu afflitta la Chiesa in quei giorni procellosi, fu il rifiuto di gran parte degli uomini di ubbidire e di sottomettersi a Dio. A capo di tale movimento di ribellione contro il servizio divino furono certo coloro che, assegnando al privato giudizio del singolo la regola della fede divina, ripudiarono superbamente l’autorità della Chiesa cattolica. Ma oltre a questi, troppi erano coloro che, se non per sistema, certo di fatto sembravano avere respinto la sottomissione a Cristo, e vivevano più da pagani che da cristiani; come se col rinascimento delle lettere e delle arti fosse rivissuto lo spirito dell’antico paganesimo. Si può anzi affermare che, se gran parte della società cristiana non fosse stata infetta, come da veleno pestifero, dalla sfrenata licenza di vita e di sentimenti, giammai dal corpo della Chiesa sarebbe scoppiata l’eresia dei Novatori. Pertanto, venuto meno il rispetto delle leggi divine non solo in gran parte del popolo cristiano, ma persino del clero, e mentre allo scoppiare della rivolta promossa dai Novatori si vedevano allontanarsi dal grembo materno della Chiesa non poche regioni, quelle cioè in cui più si era rallentato il sentimento del dovere, dal cuore dei buoni erompeva unanime la preghiera al divino Fondatore della Chiesa perché, memore delle sue promesse, venisse in soccorso alla sua Sposa in circostanze tanto stringenti.

Ed effettivamente, quando giudicò che i tempi fossero maturi, Egli venne in suo aiuto in modo meraviglioso con la celebrazione del Concilio di Trento. Inoltre, a conforto della Chiesa, suscitò, quali illustri modelli di ogni virtù, un Carlo Borromeo, un Gaetano Thiene, un Antonio Zaccaria, un Filippo Neri, una Teresa di Gesù ed altri personaggi destinati a dimostrare con la loro vita l’indefettibile santità della Chiesa cattolica, e a reprimere l’empietà e la corruttela dei costumi con la voce, con gli scritti, con l’esempio. E veramente grande ed utilissima fu l’opera da essi compiuta. Ma occorreva estirpare dalle più profonde radici l’origine stessa del male; e a quest’opera, appunto, Ignazio parve destinato dalla divina Provvidenza. Egli infatti, dotato dalla natura d’indole mirabilmente disposta sia al comando, sia all’ubbidienza, fin dai primi suoi anni andò rafforzandola con la disciplina militare. Fornito dunque di un animo così temprato per natura e per educazione, non appena illuminato da Dio si sentì chiamato a promuovere la gloria divina e la salute delle anime, con tutta la fiamma del suo cuore ardente si arruolò sotto le bandiere del Re dei cieli. E volendo inaugurare degnamente la sua nuova vita militare, vegliò tutta una notte in armi presso l’altare della Vergine; e poco dopo, ritiratosi nella grotta di Manresa, apprese dalla stessa Madre di Dio l’arte di combattere le battaglie del Signore, e ricevette come dalle mani di Lei quel perfetto codice di leggi (che così in verità possiamo chiamarlo) di cui deve far uso ogni buon soldato di Gesù Cristo. Alludiamo agli Esercizi Spirituali che, secondo la tradizione, furono ispirati dal cielo ad Ignazio. Non che si debbano apprezzare poco altri metodi di esercizi usati da altri, ma in quelli che si compiono secondo il metodo Ignaziano tutto il disegno è così sapientemente combinato, ogni parte è così strettamente connessa con l’altra, che ove non si sia contrari alla grazia divina, rinnovano l’uomo, per così dire, radicalmente e lo rendono del tutto sottomesso al volere divino. Preparatosi così alla vita d’azione, Ignazio si impegnò a formare i compagni che si era prescelto, volendo che riuscissero esemplarmente ubbidienti a Dio e al Vicario di Dio, il Romano Pontefice, e che considerassero l’obbedienza come la nota caratteristica della sua Compagnia. Perciò non solo volle che i suoi si avvezzassero ad alimentare il fervore spirituale specialmente con la pratica degli Esercizi, ma li armò di questo stesso strumento perché se ne servissero in ogni tempo per ricondurre alla Chiesa gli animi che se ne erano allontanati e per sottometterli totalmente al potere di Cristo.

In realtà, la storia attesta, e gli stessi nemici della Chiesa ammettono, qual benefico sollievo provasse subito il mondo cattolico confortato tramite Ignazio di così opportuno aiuto; né riuscirebbe facile ricordare le imprese di ogni genere compiute per la gloria di Dio dalla Compagnia di Gesù sotto la guida e il magistero di Ignazio. Furono allora visti i suoi compagni instancabili respingere vittoriosamente la ribellione degli eretici; attendere dappertutto alla riforma dei costumi corrotti; restaurare nel Clero la scaduta disciplina; guidare non pochi alle cime della perfezione cristiana; impegnarsi nell’informare a pietà e nell’erudire nelle lettere e nelle scienze la gioventù, nell’intento di preparare una posterità veramente cristiana; e lavorare intanto egregiamente nella conversione degli infedeli per dilatare con nuove conquiste il regno di Gesù Cristo.

Noi abbiamo volentieri ricordato tali benemerenze non solo perché manifestano la bontà divina verso la Chiesa, ma perché Ci sembrano opportunissime ai tempi tribolati in cui siamo stati innalzati a questa Sede Apostolica. Infatti, se si vuole ricercare la prima origine dei mali da cui è travagliata la nostra società, si vedrà che tutto deriva dalla ribellione che i Novatori scatenarono contro l’autorità divina della Chiesa; ribellione che, ingigantita nel secolo XVIII nella grande Rivoluzione, quando con tanta arroganza si promulgarono i diritti dell’uomo, ora è spinta alle estreme conseguenze. Ond’è che vediamo esaltata fuor di misura la dignità della ragione umana; disprezzato e ripudiato quanto sembri superare le forze e l’intelligenza dell’uomo e non sia compreso nei limiti della natura; per nulla considerati e dai privati e dai pubblici poteri gli stessi sacrosanti diritti di Dio. Pertanto, eliminato Dio, principio e sorgente di ogni autorità, ne consegue naturalmente che più non esista potere umano la cui autorità venga reputata inviolabile. Perciò, disprezzata l’autorità divina della Chiesa, in breve parvero vacillare e rovinare i fondamenti del potere civile, perché, prevalendo sempre più la pazza audacia della cupidigia, si incominciarono impunemente a pervertire le leggi dell’umano consorzio.

Orbene, nessun rimedio efficace, del quale tutti i buoni sentono la necessità, si può recare a condizioni tanto disperate, ove non si ristabilisca il rispetto a Dio e l’ubbidienza alla sua volontà. Attraverso le innumerevoli vicissitudini di tempi e di cose rimane sempre inconcusso che il primo e il più grande dovere degli uomini sono l’ossequio e l’ubbidienza al sommo Creatore e Signore di tutte le cose; ogni qualvolta essi si allontanano da tale dovere, occorre subito che si ravvedano, se vogliono reintegrare l’ordine radicalmente perturbato e così andar liberi dalla quantità di mali che li opprimono. Del resto in questo solo punto è contenuta l’essenza della vita cristiana, e lo stesso Apostolo Paolo sembra voler inculcare questo concetto quando mirabilmente compendia in brevi tratti la vita del divino Redentore: «Umiliò se stesso facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce » [3]. « Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti » [4].

Ora appunto gli Esercizi Spirituali aiutano meravigliosamente tale ritorno all’ubbidienza in quanto, specialmente se fatti secondo il metodo di Sant’Ignazio, inculcano con argomenti inoppugnabili la perfetta ubbidienza alla legge divina, appoggiandola agli eterni princìpi della ragione e della fede. Perciò, desiderosi che la loro pratica si diffonda sempre più, seguendo l’esempio di molti Nostri Predecessori, non solo tornammo a raccomandarli ai fedeli con la Costituzione Apostolica « Summorum Pontificum », ma inoltre nominammo Sant’Ignazio di Loyola celeste Patrono di tutti gli Esercizi Spirituali. E quantunque, come abbiamo detto, non manchino altri metodi di Esercizi, è però certo che il metodo Ignaziano eccelle tra essi, e, soprattutto per la più sicura speranza che porge di utilità solida e duratura, gode di più ampie approvazioni della Sede Apostolica. Se dunque molti fedeli useranno con diligenza questo strumento di santità, potremo confidare che in breve, repressa la cupidigia di libertà sfrenata e ristabilite la coscienza e l’osservanza del dovere, possa finalmente l’umana società ottenere il dono della pace sospirata.

Quanto fin qui abbiamo rammentato, riguarda propriamente il bene interno e domestico della religione cristiana. Ma ciò che stiamo per dire in breve di San Francesco Saverio, riguarda il suo incremento all’esterno; benché, a dire il vero, strettissimo è il legame che congiunge l’opera del Saverio con quella di Ignazio, che ora abbiamo lodata. Infatti Ignazio, alla propria scuola, seppe talmente mutare quel Saverio che da principio aveva trovato tutto dedito alla vanità della gloria umana, da poterlo in breve offrire all’estremo Oriente quale predicatore, anzi Apostolo del Vangelo di Cristo: mutazione, questa, veramente meravigliosa e da attribuire tutta meritamente all’efficacia degli Esercizi. Infatti, se Francesco intraprese più volte così lunghi viaggi per terra e per mare; se portò per primo il nome di Gesù nel Giappone, che a buon diritto si può appellare isola dei Martiri; se affrontò pericoli immensi e sostenne incredibili fatiche; se versò l’acqua salutare del Battesimo su innumerabili fronti; se infine operò tanti miracoli di ogni genere, tutto ciò lo stesso Francesco affermava di doverlo, dopo Dio, ad Ignazio, « padre dell’anima sua », come lo chiamava, dal quale, nel sacro ritiro degli Esercizi, era stato guidato alla piena cognizione e all’amore di Gesù Cristo. E qui certo rifulgono l’ammirabile bontà e sapienza della provvidenza di Dio; il quale, nel tempo appunto in cui la Chiesa era terribilmente combattuta all’interno, e all’esterno subiva perdite ingenti di popoli intieri, con questo solo mezzo, ossia con l’aiuto degli Esercizi, le somministrò un duplice soccorso della più grande opportunità; cioè, insieme con Ignazio, prescelto a riparare la disciplina interna, quel Saverio che con la conquista di popoli stranieri alla fede di Cristo doveva compensare le perdite della Chiesa stessa. Primo, dopo un così lungo intervallo di tempo, egli parve rinnovare gli esempi degli Apostoli; poiché egli stesso fondò solide cristianità tra non poche genti barbare, dopo averle istruite con molti sudori e guidate alla pietà con le sue virtù esimie, ed aprì ai nostri Missionari vastissime regioni che fino a quel tempo erano rimaste assolutamente chiuse alla predicazione cristiana. Egli poi, com’era naturale, lasciò eredi del suo spirito prima di tutti i suoi Fratelli; e Noi sappiamo che fino ad oggi essi non si allontanarono mai dalla virtù di lui, ma custodirono sempre gelosamente una così preziosa eredità. Ma la memoria di Francesco Saverio servì sempre di stimolo anche agli altri predicatori del Vangelo; e perciò appunto il Saverio, per solenne decreto di questa Sede Apostolica, fu proclamato Patrono celeste dell’opera della « Propagazione della Fede ».

Orbene, la nostra età assomiglia a quella del Saverio anche nel fatto che la fede avita, respinta con superbo sdegno da molti dei nostri, sembra ormai voglia passare ad altre nazioni che l’attendono desiderose. E Noi spesso apprendiamo dalle lettere dei Missionari che in remote regioni dell’Africa e dell’Asia già biondeggia la messe apostolica per la raccolta, onde riparare i danni che subisce la Chiesa in Europa. Inoltre i fedeli si mostrano ora molto più zelanti che in passato nel promuovere la propagazione del Vangelo; zelo, questo, certamente acceso dal soffio della grazia divina, e che Noi auspichiamo ardentemente s’infiammi dappertutto, sull’esempio e sotto il patrocinio del Saverio, affinché, mosso dalle preghiere, « il Padrone della messe mandi operai nella sua messe »: operai che ogni buon cristiano vorrà aiutare con le preghiere e sostenere con le offerte.

Perciò, diletti figli, quanti appartenete alla Compagnia di Gesù, mentre celebrate la solenne memoria del vostro Padre Legislatore e del vostro Fratello maggiore, vi esortiamo tutti a seguire i loro esempi continuando con sempre nuove benemerenze verso la Chiesa a promuovere il vostro Istituto, ripetutamente onorato di ampie lodi da questa Sede Apostolica. E, principalmente, doppio è il frutto che vorremmo ricaviate dalla presente solennità. Anzitutto che attendiate ogni giorno più a servirvi per vostra e altrui utilità degli Esercizi Spirituali. Sappiamo che su questo punto già avete intrapreso con esito felice a lavorare con particolare diligenza a favore della classe operaia; è dunque da augurare che con uguale positivo risultato vi adoperiate nell’interesse delle altre classi sociali. Il secondo frutto riguarda la diffusione delle Missioni cattoliche. Ora, benché conosciamo la vostra diligenza e il vostro impegno del tutto singolari anche in quest’opera (sappiamo infatti che circa duemila di voi lavorano per gl’infedeli in quasi quaranta Missioni) tuttavia preghiamo ardentemente Iddio che ecciti ed infiammi sempre più in voi codesto santo zelo.

E perché tutto riesca a maggior gloria di Dio, a bene della Chiesa e a salvezza delle anime, auspice dei doni divini e testimone della Nostra benevolenza paterna, impartiamo con vivo affetto la Benedizione Apostolica a te, diletto figlio, e a tutti i figli della Compagnia di Gesù a te affidati.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 3 dicembre 1922, festa di San Francesco Saverio, anno primo del Nostro Pontificato.

 

PIUS PP. XI

 

[1] I Cor., XVI, 9.

[2] I Cor., XV, 41.

[3] Phil., II, 8.

[4] Rom., V, 19.