Luigi Monza

Luigi Monza

(1898-1954)

Beatificazione:

- 30 aprile 2006

- Papa  Benedetto XVI

Ricorrenza:

- 28 settembre

Sacerdote, fondatore dell'Istituto Secolare delle Piccole Apostole della Carità, rese servizio al Signore attraverso l’assistenza sociosanitaria, l’istruzione e la formazione delle persone disabili e svantaggiate, soprattutto dei bambini

  • Biografia
  • omelia di beatificazione
"Dobbiamo penetrare nella società con la carità dei primi cristiani"

 

Don Luigi era nato il 22 giugno del 1898 a Cislago tra Varese e Milano. Il bambino apparve molto gracile, venne battezzato immediatamente e fatto cresimare all'età di un anno e mezzo. Fortunatamente la sua salute lentamente andò migliorando e con gli anni egli si irrobustì.

Nel maggio 1913 un grave incidente cambiò radicalmente la vita della famiglia Monza:  il padre Giuseppe cadde da un albero rimanendo paralizzato. Egli confidò al suo parroco, don Luigi Vismara, che da tempo sentiva il desiderio di consacrarsi al Signore nel sacerdozio.

Nel settembre del 1913, grazie all'aiuto del suo parroco, Luigi partì per l'Istituto missionario salesiano di Penango Monferrato presso Asti. Al rientro a casa per le vacanze estive dopo l'anno scolastico 1915/16 trovò la situazione familiare peggiorata. Il padre infatti era ormai completamente invalido e costretto a letto e Pietro, il figlio maggiore, era stato chiamato a combattere sul fronte orientale. Luigi decise di non lasciare il peso della famiglia solo sulle spalle della madre, visto che la sorella Giuseppina era entrata fra le Suore di carità dell'Immacolata Concezione di Ivrea e non tornò a Penango.

Don Vismara venne di nuovo in suo aiuto e riuscì a farlo entrare al Collegio Villoresi di Monza. Quando sembrava tutto risolto, il 16 gennaio 1917 perse il padre e poi fu chiamato sotto le armi. Dopo il congedo riprese gli studi. Il Cardinal Tosi lo ordinò sacerdote il 19 settembre 1925. Fu destinato alla chiesa parrocchiale di s. Maurizio a Vedano Olona, in provincia di Varese. Don Monza si inserì subito nella vita della parrocchia. Il suo metodo era basato sulla testimonianza personale come forma diretta di evangelizzazione, sull'esercizio della carità, sulla formazione di una comunità capace di vivere relazioni immediate e profonde. Si prodigò per fondare o rafforzare tre importanti gruppi:  la schola cantorum, con il gruppo delle voci bianche, la filodrammatica e la società sportiva "Viribus unitis". Inoltre creò una scuola di francese, per permettere agli emigranti, quasi tutti diretti in Francia o in Svizzera, di conoscere le basi della lingua con cui avrebbero potuto comunicare nel nuovo paese. L'attività che riscosse maggiore successo fu quella sportiva della squadra di calcio "Viribus unitis". Nel maggio del '26 i fascisti costituirono l'Unione Sportiva Vedanese, con l'evidente intenzione di contrastare la "squadra dei preti". Poiché non riscossero molte adesioni passarono alle provocazioni innescando una sequela di violenze che, nonostante la mediazione di don Luigi, culminarono nell'arresto di otto giovani dell'oratorio. Anche Don Luigi venne arrestato insieme a don De Maddalena e nonostante l'intervento della Curia dovettero passare quattro lunghi mesi prima che i due venissero liberati.

Don Luigi fu assolto con formula piena anche se gli venne ingiunto di non recarsi a Vedano. Dopo la scarcerazione, la diocesi decise di trasferire momentaneamente il giovane sacerdote alla parrocchia di S. Maria del Rosario a Milano, per poi destinarlo al Santuario di Nostra Signora dei Miracoli a Saronno, dove giunse nel novembre 1928. Fu in questo ambiente familiare che don Luigi formò il primo nucleo oratoriano, costituito inizialmente da non più di trenta ragazzi. Egli in poco tempo costituì una corale e la sua casa divenne un'aula per studiare e insieme sala di canto e di ricreazione.

Lentamente germogliò l'idea dell'Opera che poi prese il nome di "Nostra Famiglia". Quando nel maggio del 1933 incontrò per la prima volta la signorina Clara Cucchi capì che era la persona giusta per iniziare a concretizzare il progetto che aveva in mente. Dopo Clara fu la volta di Teresa Pitteri. Il 30 ottobre del 1936 don Luigi partecipò alla prima riunione ufficiale che diede inizio all'istituto che da quel giorno prese il nome "La Nostra Famiglia". Quindi si diede da fare per l'acquisto di una casa e, con grandi sacrifici personali, riuscì a comprare un terreno situato a Vedano Olona sul quale venne posta la prima pietra il 29 agosto 1937.

Nel frattempo venne nominato parroco della chiesa di S. Giovanni alla Castagna di Lecco, un rione periferico della città. Nel giro di pochi mesi riuscì a conquistarsi la simpatia dei parrocchiani facendosi amare e apprezzare per le sue doti umane e spirituali. Al centro della vita della parrocchia pose l'adorazione eucaristica che egli praticò assiduamente e con cui "contagiò" i suoi parrocchiani. Ma dalle tante testimonianze che ci sono rimaste del periodo di Lecco, risulta chiaro che nel ministero di don Luigi avesse una grande importanza anche la predicazione, caratterizzata da grande semplicità. Con l'arrivo di don Monza a S. Giovanni l'associazionismo cattolico, già presente nella parrocchia, ebbe nuovi stimoli e nuovo vigore; egli infatti si dedicò con grande cura allo sviluppo di tutte le organizzazioni cattoliche. E proprio i laici divennero ben presto protagonisti delle numerose attività.

Il 1° settembre 1939 scoppiava la II Guerra Mondiale. Anche a S. Giovanni alla Castagna molti giovani, più di 350, dovettero lasciare le proprie case per rispondere alla chiamata alle armi, gettando nello sconforto le proprie famiglie. A don Luigi toccò il compito di assistere spiritualmente e materialmente coloro che rimanevano in paese.

Terminato il conflitto la vera pace era ancora lontana. A Vedano gli sfollati tornarono ai propri paesi e la casa de La Nostra Famiglia rimase a disposizione per nuove iniziative. Nel gennaio del 1946 il professor Giuseppe Vercelli, direttore dell'Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, propose a Clara Cucchi di occuparsi della rieducazione dei bambini anormali psichici. Questa attività, che ben si inseriva nello spirito dell'Istituto, si prospettava estremamente impegnativa e rischiosa per la piccola comunità, composta da ragazze digiune di conoscenze medico pedagogiche. Ma don Luigi e Clara si lasciarono guidare dagli eventi, scorgendo nella proposta del Vercelli un segno della volontà di Dio.

Don Luigi viveva l'impegno di parroco e quello per La Nostra Famiglia come completamento e fusione della carità. L'Opera aveva ancora bisogno del suo fondatore e fu grazie infatti alla sua guida che la giovane comunità si consolidò per affrontare un futuro di orizzonti così vasti che nessuna delle sorelle avrebbe potuto allora nemmeno immaginare. Ma tutto questo impegno fu considerato eccessivo da alcuni. E lo stesso Cardinal Schuster lo esortò categoricamente a scegliere tra la parrocchia e la direzione delle sue religiose. Don Luigi soffrì molto per queste critiche, in particolare quelle dell'Arcivescovo al quale cercò di spiegare la situazione con una lettera, pronto comunque a obbedire incondizionatamente a qualunque direttiva.

In quegli anni si accentuarono i disturbi cardiaci di cui don Monza soffriva da tempo, aggravati sicuramente dal dolore per la perdita della madre, avvenuta il 17 aprile 1953. Il 25 agosto 1954, di ritorno dalla casa di Varazze, iniziò ad accusare alcuni dolori che nel giro di poche ore peggiorarono. Il medico lo fece ricoverare all'ospedale per un elettrocardiogramma. L'esito non lasciò dubbi:  grave infarto in atto. Le condizioni peggiorarono. La mattina del 29 settembre 1954 ricevette l'Eucaristia. Si spense invocando:  "Gesù mio, misericordia...".

BEATIFICAZIONE DI MONSIGNOR LUIGI BIRAGHI E DI DON LUIGI MONZA

OMELIA DEL CARD. DIONIGI TETTAMANZI
Arcivescovo di Milano

Milano, Duomo, 30 aprile 2006

 

Carissimi fratelli e sorelle nel Signore,

il primo sentimento che oggi sboccia e cresce nel nostro cuore è quello del rendimento di grazie a Dio per il grande dono fatto alla Chiesa ambrosiana con i due nuovi beati: monsignor Luigi Biraghi (1801-1879) e don Luigi Monza (1898-1954). In questa Chiesa sono nati e cresciuti nella fede; hanno accolto e seguito la vocazione al sacerdozio; fatti preti di Cristo, hanno compiuto con fedeltà e generosità quotidiane il loro servizio alla Chiesa interpretandolo e vivendolo come cammino di santità.

La beatificazione odierna li riporta insieme davanti al Duomo, la Chiesa madre di tutte le chiese della Diocesi, anche di quelle chiese e di quei luoghi che i due Beati hanno attraversato, abitato, amato e servito. Sì, insieme: anche se vissuti in tempi storici diversi, anche se arricchiti di doni di natura e di grazia diversi, anche se impegnati in compiti sacerdotali diversi, anche se appassionati e fecondi di opere pastorali diverse. Insieme, profondamente insieme: perché membri dello stesso presbiterio diocesano e della stessa Chiesa ambrosiana nella quale armonicamente si fondono unità e varietà. Insieme, profondamente insieme: perché ambedue rivelano l’unico volto della Chiesa santa di Dio e ne mostrano la variopinta bellezza spirituale segnata dai loro differenti carismi ricevuti dal medesimo Spirito e dalle loro diverse modalità di risposta alla grande e comune chiamata alla perfezione dell’amore.

Il nostro rendimento di grazie a Dio per il dono dei due nuovi Beati si riveste anche di una gioia e di un compiacimento particolari, perché il rito di beatificazione viene celebrato, per la prima volta nella storia bimillenaria della Chiesa ambrosiana, nel nostro Duomo di Milano. Anche in questo vogliamo vedere la bontà del Signore per noi.

Certo, l’essenziale che ci rende grati e gioiosi davanti a Dio è la convinzione che i nuovi Beati – monsignor Biraghi e don Monza – sono un grande dono di Dio per tutti noi.

Ma in che senso e con quali implicazioni di vita? Rispondiamo alla luce della fede della Chiesa: il Signore ce li dona come modelli e come intercessori.

I Beati sono, anzi tutto, un esempio di vita cristiana che ci affascina e ci conquista e, insieme, ci provoca e ci stimola. La loro avventura spirituale è posta davanti ai nostri occhi e al nostro cuore, non solo perché sia conosciuta, ammirata e contemplata, ma anche perché possa suscitare il desiderio sincero e l’impegno concreto di inserire e mantenere la nostra vita quotidiana in quel cammino di santità che Dio vuole per tutti, nessuno escluso. Un esempio per la singola persona, ma anche per tutta la comunità cristiana e la stessa società civile. Sempre, ed oggi in particolare, abbiamo grande bisogno di avere tanti Beati e Santi, perché la loro esemplarità di vita denunci il male presente in noi, ma soprattutto risvegli e fortifichi lo slancio verso il vero bene, accolto in tutto il suo fascino e vissuto in tutta la sua urgenza di perfezione. Una esemplarità che semina speranza in noi e negli altri, che genera fiducia e impegno nel portare a compimento la chiamata di santità che Dio ci rivolge con instancabile amore.

Il Signore ci dona i due nuovi Beati non solo come modelli di vita, ma anche e non meno come intercessori a nostro favore: il loro amore per Dio – reso perfetto nella vita eterna – è indisgiungibile da quello per tutti i loro fratelli e sorelle nella fede, anzi per tutti gli uomini e per ciascuno di loro. Proprio perché dichiarati beati dalla Chiesa, monsignor Luigi Biraghi e don Luigi Monza sono, in un certo senso, in attesa della nostra preghiera. Tocca a noi rivolgerla, fiduciosi e imploranti, perché ci sia dato di condividere con loro il cammino della santità e, giunti alla meta, di prendere parte con loro allo stesso sconfinato oceano di gioia, che è il cuore beato e beatificante di Dio.

Ora una luce e una forza singolari per condividere questo cammino di santità ci vengono dalla liturgia della Parola. In realtà, le tre letture ascoltate delineano un quadro luminoso, come una grande icona da contemplare e da pregare: in essa possiamo rileggere qualche aspetto fondamentale della vicenda spirituale dei due nuovi Beati.

Il segreto della vita santa: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!»

Al centro dell’icona campeggia la scena dell’incontro di Gesù risorto con i discepoli, dopo i giorni tristi della passione e della morte: «Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: “Pace a voi”» (Luca 24, 36). Nel “mistero”, ossia nella realtà più profonda, questo stesso Gesù, il crocifisso risorto, anche ora, in questa nostra assemblea liturgica, si fa presente e ci rivolge il medesimo saluto, ci offre lo stesso dono della pace.

Ma l’avvio della scena, così come la presenta Luca, impressiona per la reazione dei discepoli. L’Evangelista ci rassicura che appare «Gesù in persona», eppure i discepoli reagiscono «stupiti e spaventati», anzi Luca aggiunge – unico tra gli evangelisti – che «credevano di vedere un fantasma» (v. 37). Dunque, non lo riconoscono. Temono di vedere un’ombra, uno spettro, una figura inconsistente.

Gesù allora si avvicina ai suoi discepoli e si fa riconoscere. Acconsente al loro desiderio di vederlo e di toccarlo: «Ma egli disse: “… Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho”. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi» (vv. 38-40). È allora nel corpo piagato e crocifisso, trasfigurato nella risurrezione, che è dato ai discepoli – ai discepoli di allora e di ogni tempo, dunque anche a ciascuno di noi – di incontrare, o meglio di essere incontrati, da Cristo e dal suo amore che redime e salva, da quell’amore “sino alla fine” che egli ha vissuto e testimoniato sulla croce.

Questo “vedere” e “toccare” Cristo avviene nella fede, nell’accoglienza umile e grata di lui, del suo amore, della sua salvezza. Come ci ricorda con parola folgorante il nostro sant’Ambrogio: «È con la fede che si tocca Cristo; è con la fede che si vede Cristo [Fide tangitur Christus, fide Christus videtur]» (Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 59; VI, 57). Ed è da questa stessa fede che deriva e si sprigiona l’amore del discepolo per Cristo. E tutto ciò nel segno di una grande gioia, come ci ricordano le narrazioni evangeliche sul Risorto: «E i discepoli gioirono al vedere il Signore» (Giovanni 20, 20).

Giungiamo così al cuore della vita cristiana, scopriamo in tal modo il “segreto” della santità: Gesù Cristo, il crocifisso risorto, realmente ci incontra e immensamente ci ama, ci ama e ci salva donandoci nel suo Spirito il cuore nuovo, un cuore reso veramente capace di amare e di amare in un modo assolutamente nuovo: con lo stesso amore con cui Dio ci ama. Come ci ha ricordato papa Benedetto XVI nell’incipit della sua prima enciclica Deus caritas est: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (n. 1).

Proprio in questo incontro con Cristo crocifisso e risorto, nell’accoglienza libera del suo amore, nella risposta costante e crescente a questo stesso amore sta il cuore pulsante della vita di santità, stanno il principio sorgivo, il dinamismo inarrestabile e l’energia formidabile della grandiosa avventura spirituale di questi due preti ambrosiani. Innamorati del Signore Gesù: è questa la più vera e più splendida fisionomia di monsignor Biraghi e di don Monza.

E ciò è assolutamente decisivo. La grandezza spirituale dei due nuovi Beati non sta tanto nell’intensa e infaticabile attività compiuta, come l’impegno pastorale vissuto con fedeltà e generosità – in particolare, per Biraghi nel Seminario milanese e nella Biblioteca ambrosiana, per Monza nella vita d’oratorio e di parrocchia –; non sta tanto nelle istituzioni da loro fondate e guidate – la congregazione delle Suore Marcelline e l’istituto delle Piccole Apostole della Carità –, ma sta nell’amore a Cristo – e in lui alla Chiesa e all’uomo – vissuto come la grazia più eccelsa e come il compito più stringente ricevuti da Dio.

Ai seminaristi don Biraghi non si stancava di ripetere: «O carissimi, ecco la prima, la eminente qualità dei ministri di Gesù Cristo: amare Gesù Cristo, amarlo davvero, amarlo sopra ogni cosa». E a tutti così si rivolgeva: «Non vi è bene che nell’amare nostro Signore Gesù Cristo. Solo nell’amare Gesù Cristo non dovete mettere misura».

E qui l’esemplarità e la preghiera d’intercessione dei due nuovi Beati si fanno particolarmente preziose per noi. È l’amore per Cristo a decidere il vero senso e il valore supremo del nostro vivere e operare, del nostro lavorare e soffrire. Come è consolante, questo! Per tutti e per ciascuno di noi, sempre e in ogni momento, anche nelle condizioni più fragili e inquietanti dell’esistenza, anche nel nascondimento e nella solitudine, anche nella disistima e nell’emarginazione che ci possono colpire… ci è comunque dato di poter essere grandi nell’amore. Ed è ciò che veramente conta! Sì, è consolante questo per noi, e insieme è motivo di profonda gioia per la Chiesa di Cristo, per quella ricchezza di amore che anche le persone più umili e semplici le donano; ed è motivo di speranza per la nostra società: lo spazio così visibilmente impressionante del male presente nel mondo è quotidianamente contrastato dallo spazio – il più delle volte invisibile, ma quanto mai reale – del bene che non manca mai e non è mai perdente.

Dall’amore per Cristo all’amore per i fratelli: «Da questo sappiamo d’averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti»

Riprendiamo la scena evangelica nella sua conclusione. Gesù risorto, dopo aver aperto ai suoi discepoli «la mente all’intelligenza delle Scritture», «disse: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni”» (Luca 24, 46-48).

Essere testimoni di Gesù risorto: è la consegna missionaria data ai discepoli; è la stessa consegna data anche a noi. Come è possibile “vedere” e “toccare” Gesù, il crocifisso risorto, e non farlo vedere agli altri, e non portare anche agli altri l’esperienza dell’incontro personale con il Signore? Il mandato missionario viene sì dato da Gesù ai discepoli, ma è loro consegnato non tanto dall’esterno con un comandamento morale, quanto dall’interno con una grazia che dona bellezza e forza, fascino e bisogno insopprimibile di condividere con tutti il dono di salvezza che viene dalla morte e risurrezione di Gesù. Questa è l’esperienza del cenacolo la sera di Pasqua, quando i discepoli gioiscono nel vedere il Signore e non possono non comunicare all’apostolo Tommaso al suo rientro: «Abbiamo visto il Signore!» (Giovanni 20, 25). Ed è la stessa esperienza vissuta da Maria di Magdala, che «andò subito ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore” e anche ciò che le aveva detto» (Giovanni 20, 18).

Possiamo dire: l’esperienza di essere amati da Cristo e di amarlo non può essere vissuta – e, per così dire, consumata egoisticamente – dentro ciascuno di noi, perché per una sua forza interiore ci sospinge ad aprirci agli altri, ad incontrarli, a invitarli a condividere la stessa esperienza di salvezza, di vita rinnovata e rinnovatrice, di vera libertà, di gioia piena.

Così l’amore per Cristo sfocia nell’amore verso il prossimo, verso tutti i fratelli e le sorelle in umanità.

È quanto ci ricorda in termini forti e affascinanti Giovanni nella sua Prima Lettera, che oggi abbiamo ascoltato come seconda lettura. L’apostolo evangelista scrive la sua lettera sulla carità o, meglio, su “Dio che è carità”: «Figlioli miei, vi scrivo queste cose…» (1 Giovanni 2, 1). Giovanni parla del comandamento unico del cristiano, presenta l’unica istruzione che conduce sulla via della santità: «Da questo sappiamo d’averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti… chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto» (vv. 3. 5) o, come dice il testo originale, “giunge sino alla fine” [teteleìotai], raggiunge la meta che è la stessa carità di Gesù nella sua passione, nel dono totale di sé sulla croce.

È bello pensare a Giovanni che continua a scriverci anche oggi questa lettera, con la sapienza e la tenerezza di papa Benedetto. Nella sua prima enciclica, intitolata Deus caritas est, leggiamo: «Il programma del cristiano – il programma del buon samaritano, il programma di Gesù – è “un cuore che vede”» (n. 31), che vede le varie necessità e povertà dei fratelli e vi risponde con il dono di sé e con le opere della giustizia e della carità.

È anche bello pensare che la lettera di Giovanni è stata e viene quotidianamente scritta dalla Chiesa di Cristo nella sua storia di carità. Come diceva don Luigi Monza: «Se vi dicessero: Io vorrei scrivere la vita del cristianesimo in un bel volume, questo volume in una pagina, questa pagina in una riga, questa riga in una sola parola, noi gli risponderemmo dicendo: scrivi “Amore”».

Sì, la storia della Chiesa è storia di carità e, per questo, è storia di santità. Allora possiamo e dobbiamo guardare così i due nuovi Beati: come icone viventi di quella lettera sull’amore che Dio continua a scrivere nella santità degli uomini e delle donne di ogni tempo. Monsignor Luigi Biraghi e don Luigi Monza sono due pagine luminose della “Lettera sull’agape” nell’Ottocento e nel Novecento. Figli del loro tempo, hanno saputo cogliere la chiamata dei loro contemporanei, leggendovi quei segni che chiedevano risposte nuove e coraggiose ai bisogni del momento, perché hanno avuto – come dice il Papa – «un cuore che vede»!

Biraghi, uomo dotto e insigne maestro di generazioni di preti e di missionari, ha saputo istillare attraverso la sua opera educativa l’importanza della carità intellettuale, la sapienza che viene dalla fede e che è capace di confrontarsi, senza paura e con fiducia, con i problemi del proprio tempo. E ha richiamato insistentemente le sue figlie, le Suore Martelline, a quella passione educativa che senza alcun dubbio è parte integrante della carità cristiana. In un secolo di scontri, ha saputo essere uomo di pace. Dinanzi al sospetto di essere uomo di parte, egli si è speso per l’unità del clero e la fedeltà alla Chiesa, rinunciando anche agli onori personali.

Don Monza, uomo umile e schivo, ha sfidato la società moderna sognando il ritorno alla carità pratica dei primi cristiani. Proprio la carità fraterna dei primi cristiani, per misteriose circostanze storiche, è diventata attenzione competente alla disabilità, soprattutto dei bambini e dei ragazzi in età evolutiva. Don Monza ha fondato l’opera La Nostra Famiglia che, forse prima in Italia, ha tolto l’handicap dalla sua marginalità sociale, con centri diffusi in tutto il Paese e nel mondo. E lo ha fatto rimanendo parroco e additando alla sua gente di Lecco l’esperienza pionieristica, a cui aveva dato avvio, come il “respiro” della vita parrocchiale e della comunità fraterna. La carità dei primi cristiani, dunque, come “forma” della vita ecclesiale e del servizio sociale.

Ma anche noi, carissimi, siamo chiamati non solo a leggere la “lettera sulla carità” che gli altri – i Santi e i Beati in particolare – hanno scritto e scrivono. Siamo chiamati, sia personalmente che come comunità, anche ad essere “protagonisti”, a scrivere noi pure – e quotidianamente – la nostra “lettera sulla carità”, anzi ad essere noi stessi, nel cuore e nelle opere, una lettera viva, una lettera – direbbe l’apostolo Paolo – «scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2 Corinzi 3, 3).

Chiediamo con fiducia ai due nuovi Beati di essere da loro aiutati a scrivere questa nostra lettera: è attesa, con ansia o inconsapevolmente, dalle tante e diverse forme di necessità e povertà materiali, morali e spirituali della nostra società, delle nostre città, dei nostri paesi; è attesa, soprattutto e con una urgenza unica, dall’amore per Cristo: un amore che ci spinge ad offrirlo agli altri nella testimonianza della carità fraterna.

Che i due nuovi Beati ci aiutino ad assicurare alla nostra carità, in intensità e in ampiezza, le dimensioni illimitate proprie del cuore di Cristo: «Come non è concepibile un cristiano senza amore – scrive don Monza –, così non è concepibile un cristiano senza l’espansione della sua carità, che deve abbracciare tutto il mondo. Non dite: “Io voglio salvarmi”, ma dite invece: “Io voglio salvare il mondo”. Questo è il solo orizzonte degno di un cristiano perché è l’orizzonte della carità».

A Dio, a Dio solo, lode, gloria e potenza nei secoli!

A noi, in ogni tempo, il suo amore che salva e la sua gioia!

Amen.