Nicola Tavelić, Stefano da Cuneo, Deodato da Ruticinio, Pietro da Narbona
(†1391)
- 14 novembre
Sacerdoti dell’Ordine dei Minori e martiri, che furono arsi nel fuoco per aver predicato coraggiosamente nella pubblica piazza la religione cristiana davanti ai Saraceni, professando con fermezza Cristo Figlio di Dio
Le loro storie personali di francescani missionari, s’intrecciarono nel 1383, quando provenienti da diversi luoghi d’Europa, confluirono nel convento francescano di Mont Sion in Palestina, dove l’Ordine di S. Francesco è da secoli “Custode dei Luoghi Santi” del cristianesimo.
I Frati Minori, Nicola Tavelic, Deodato Aribert da Ruticinio, Stefano da Cuneo e Pietro da Narbona, si ritrovarono nel suddetto convento francescano, dove per otto anni vissero secondo la Regola di san Francesco, lavorando nei compiti loro affidati, per la custodia dei Luoghi Santi della vita e morte di Gesù, e cercando di fare apostolato nel mondo musulmano, dove Mont Sion era praticamente come un’isoletta in mezzo ad un mare di islamici.
Con i musulmani, fare apostolato era praticamente infruttuoso, visto la radicalizzazione della loro fede, poco aperta al dialogo interreligioso. Ciò nonostante i quattro Frati Minori, decisero di portare il Vangelo ai maomettani, esponendo pubblicamente le tesi del cristianesimo, confrontandole con quelle islamiche e dopo essersi consultati con due teologi, prepararono una memoria in cui, in modo dettagliato e ricca di riferimenti storici e teologici, esponevano meticolosamente la dottrina cristiana confutando l’islamismo.
L’11 novembre 1391, si recarono davanti al Cadì (giudice) di Gerusalemme e alla presenza anche di molti musulmani, esposero leggendo, il loro elaborato con grande coraggio. Sebbene ascoltati attentamente, ciò non fu accettato dai presenti, andati alla fine in escandescenze e quindi furono invitati a ritirare quello che avevano detto; i quattro frati rifiutarono e pertanto vennero condannati a morte; per tre giorni furono rinchiusi in carcere dove subirono sevizie di ogni genere.
Il 14 novembre ricondotti in piazza, fu di nuovo loro richiesto di ritrattare quanto detto contro l’Islam, al nuovo rifiuto vennero ammazzati, fatti a pezzi e bruciati; i musulmani fecero scomparire ogni resto, anche le ceneri, per evitare che fossero onorati dai cristiani.
Il loro martirio fu descritto minuziosamente in una relazione del ‘Custode’ di Terra Santa, padre Geraldo Calveti, già due mesi dopo la loro morte.
Il culto nell’Ordine Francescano, risale sin dal XV sec., papa Leone XIII nel 1889, confermò il culto del solo Nicola Tavelic, il capogruppo, il quale ebbe grande venerazione in Jugoslavia sua patria.
Nel 1966, papa Paolo VI confermò il culto anche per gli altri tre martiri francescani, fissando la loro festa al 17 novembre; ma nel Martirologio Francescano la data rimase quella della loro morte (dies natalis) cioè il 14 novembre
Lo stesso papa Paolo VI, il 21 giugno del 1970 a Roma, li elevò agli onori degli altari proclamandoli santi; la loro celebrazione liturgica è stata portata per tutti al 14 novembre, e inseriti nel Martirologio Romano alla stessa data; sono i primi santi martiri della Custodia di Terra Santa.
(fonte: santiebeati.it)
CANONIZZAZIONE DEI MARTIRI NICOLA TAVELIĆ, DEODATO DA RODEZ, STEFANO DA CUNEO E PIETRO DA NARBONNE
OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI
Domenica, 21 giugno 1970
Ecco riconosciuta la gloria della santità a Nicola Tavelić di Sebenico, in Croazia, ed ai suoi compagni Deodato «de Ruticinio», della Provincia di Aquitania, Pietro da Narbona, della Provincia di Provenza, e Stefano da Cuneo, della Provincia di Genova, tutti della Famiglia Religiosa dei Frati Minori di San Francesco; già venerato il primo col titolo di beato ( lSSl), e non meno competente agli altri suoi soci per averne condiviso la vocazione e l’eroica sorte del martirio, il 14 novembre dell’anno 1391 (al tempo di Papa Bonifacio IX, Tomacelli, durante lo scisma d’Occidente).
L’INNO PERENNE DI S. CIPRIANO
Vengono alle nostre labbra le parole di San Cipriano ai Martiri: «Esulto di letizia e di compiacenza, o fortissimi e beatissimi fratelli, riconoscendo la vostra fede e il vostro coraggio; la madre Chiesa è fiera di voi . . . Come cantare le vostre lodi, o fratelli valorosi? La forza del vostro animo e la perseveranza della vostra fede con quale elogio posso io celebrare?» (Ep. VIII; PL 4, 251-252).
Noi siamo particolarmente felici d’aver potuto proclamare la santità di questi martiri della fede, avendo così convalidato di fronte alla Chiesa intera il culto, che fino dal tempo della loro tragica e beata morte era a loro attribuito, a Nicola Tavelić in modo speciale, per merito dei suoi concittadini di Sebenico e dei suoi connazionali, dai quali fu sempre fedelmente conservata memoria di lui, e fu sempre circondata di pietà e di onore. È così compiuto un voto a lungo con tenace speranza nutrito.
Sono passati cinque secoli dal martirio di Nicola Tavelić e dei suoi soci. Sorge spontanea la domanda: come mai la Chiesa ha tanto tardato a canonizzare la loro eroica virtù? Lo studio delle circostanze mediante le quali fu consumato il loro martirio, fu tramandato il loro ricordo, fu autorizzato in pratica e in diritto il culto del beato Nicola, e fu ripreso l’esame della sua causa, può dare la risposta a questa ovvia questione; ma è studio complesso e che presenta un aspetto caratteristico, di non facile interpretazione. Narra la storia che Nicola Tavelić ed i suoi compagni furono martiri volontari, i quali, più che subire l’orrendo supplizio a loro inflitto, ad esso si esposero.
Siamo a Gerusalemme, al tempo dell’occupazione musulmana, in un periodo di relativa tregua, se allora i Francescani potevano risiedere nella città. I quattro Frati, protagonisti della tragica avventura missionaria, sono mossi da una duplice intenzione: quella di predicare la Fede cristiana confutando coraggiosamente, non certo forse cautamente e saggiamente, la religione di Maometto; e quella di sfidare e provocare il rischio del sacrificio della loro vita. È vero martirio? Già il grande dottore di questa materia, Papa Benedetto XIV, nella sua opera magistrale De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione, si era posto il problema per risolverlo, in conformità alla dottrina consueta, in senso negativo: se il martirio è provocato intenzionalmente, non è vero martirio. Papa Lambertini, celebre per i suoi frizzi salaci, ci avverte che non bisogna stuzzicare il can che dorme (Cfr. BENEDETTO XIV, De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione, lib. III, c. 17, 4).
Sorge allora una quantità di problemi. La tradizione storica della Chiesa non vanta forse altre figure di martiri volontari? Sant’Ignazio d’Antiochia, questa luminosissima figura di martire all’inizio del secondo secolo, non supplica forse i cristiani di Roma di non impedire il suo previsto martirio? Nessuna voce è più alta e lirica della sua, per perorare la sua immolazione. Io sono frumento di Dio, egli scrive con patetica veemenza, oh! ch’io sia macinato dai denti delle fiere, affinché io diventi pane puro di Cristo. «Lasciate che io sia imitatore della passione del mio Dio . . . ogni mio desiderio è ormai crocifisso . . .» (C. IV-V, etc.). Non ci ricorda poi il nostro Martirologio i nomi di Martiri, che spontaneamente si lanciano alla morte per causa degna di qualificarli tali? S. Apollonia ad esempio (9 febbraio); S. Pelagia, elogiata da S. Ambrogio (De Virg. III; 9 giugno) ecc. Vi è poi tutta una letteratura che esorta al martirio, da Tertulliano in poi.
MARTIRI VOLONTARI
Ma per il caso nostro abbiamo un testo, che forse è determinante per la spiegazione della psicologia di Tavelić e dei suoi compagni; ed è desunto dalla regola stessa di San Francesco. Vale la pena di citarlo. «I frati che, per amore di Cristo, vanno in missione fra gli infedeli, possono comportarsi in due diverse maniere. Una di queste consiste nel non mai mettersi a discutere con gli infedeli e nell’essere umilmente sottomessi a tutte le creature per (amor di) Dio (Cfr. 1 Petr. 11, 13), dimostrando in tal modo d’essere cristiani. L’altra maniera è questa: quando i frati conosceranno che è volontà di Dio annunziare agli infedeli la parola divina, lo facciano, invitandoli a credere alla Santissima Trinità, a farsi battezzare e a divenire cristiani. Ma bisogna che i frati si ricordino sempre di aver consacrato se stessi e d’aver abbandonato i loro corpi a nostro Signor Gesù Cristo, e perciò devono, per amor suo, esporsi ai nemici visibili ed invisibili, perché dice il Signore: “Chi perderà la sua vita per me la salverà per la vita eterna”» (Regula I, c. XVI; Gli scritti di S. Francesco d’Assisi, Vicinelli pp. 102-103, Mondadori 1955; J. JORGENSEN, San Francesco d’Assisi, nuova ed. 1968, p. 321; e c. XII della Regula II). La prima maniera fu scelta da San Francesco stesso nel suo viaggio in Palestina nel 1219; sebbene lui pure «per la sete del martirio, nella presenza del Soldan superba, predicò Cristo» (DANTE, Par., XI, 100); la seconda quella dell’ardimentoso discepolo, S. Nicola Tavelić e dei suoi compagni. «I Frati Francescani - osserva il Relatore Generale della Sezione storica della nostra Sacra Congregazione per le cause dei Santi - che si recavano in Palestina nei secoli XIII-XV, vi giungevano . . . con una preparazione psicologica orientata verso il martirio, cioè verso la perfetta imitazione di Cristo, Il beato Nicola ed i suoi tre consoci, quando presero la loro eroica decisione, erano animati dallo stesso entusiasmo religioso del loro Fondatore e dei primi Martiri dell’Ordine messi a morte nel Marocco nel 1220 e 1227».
SPIRITUALITÀ FRANCESCANA
Vi è in tutta l’originaria spiritualità francescana una caratteristica aspirazione, quella della imitazione testuale del Signore, fino alle estreme conseguenze, anche quelle che non sono «de necessitate salutis» (Cfr. Summ. Theol., II-II, 124, 3); ora del Signore non si dice forse che «si offerse, perché Egli lo volle»? (Is. 53, 7) Lui medesimo non afferma: «. . . Io do la mia vita . . . Nessuno me la toglie, ma Io la do da me stesso . . .»? (Io. 10, 17-18) È vero che «nessuno deve spontaneamente darsi la morte» (S. AUG., De civ. Dei, 1, 26; PL 41, 39), che «uno non deve dare ad altri occasione di agire ingiustamente» (Summ. Theol., ibid. 1 ad 3); ma, come nota lo stesso Benedetto XIV, riferendosi al nostro caso, vi possono essere situazioni in cui, o per impulso dello Spirito Santo, o per altre speciali circostanze, l’araldo del Vangelo non ha altro modo per scuotere l’infedeltà che quello di fare del proprio sangue la voce d’una estrema testimonianza. Testimonianza indubbiamente paradossale, testimonianza d’urto, testimonianza vana, perché non subito accolta, ma sommamente preziosa, perché convalidata dal totale dono di sé; testimonianza che mette in suprema evidenza che cosa sia martirio. Esso dovrebbe essere subito, passivo; nel linguaggio agiografico si chiama passio; ma non è mai privo d’un’accettazione volontaria, attiva; che nel nostro caso prevale e perciò maggiormente risplende.
Martirio, come si sa, vuol dire testimonianza, cioè affermazione soggettiva e oggettiva della fede. Soggettiva, perché con essa il martire attesta la convinzione sua propria, che s’identifica con la sua stessa personalità, della certezza ch’egli possiede, e che non può in alcun modo tradire; e oggettiva, perché con tale affermazione il martire vuole annunciare Cristo, vuole provare che Cristo è la verità, e che questa verità vale più della propria vita; è al vertice di ciò che è, e di ciò che preme, di ciò che salva. Diventa così motivo di credibilità (Cfr. Denz-Sch., 2779). Acquista fecondità missionaria: Semen est sanguis christianorum (TERTULLIANO, Apologeticum, c. 50; PL 1).
Martirio, al tempo stesso, è una dimostrazione assoluta di amore. Gesù l’ha detto: «Non vi è amore maggiore di quello per cui uno offre la propria vita per coloro ch’egli ama» (Cfr. Io. 15, 13); e perciò commenta l’Angelico che il martirio demonstrat perfectionem caritatis, attesta la perfezione della carità (Summ. Theol., II-11, 124, 3).
E perciò esso possiede in sommo grado l’elemento volontario dell’azione umana, il coraggio, la fortezza, l’eroismo, il sacrificio. Rappresenta l’aspetto drammatico e tragico del Vangelo: «Beati coloro che soffrono persecuzione per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (Matth. 5, 10).
LA MEMORIA DIVENTA ATTUALITÀ
San Nicola Tavelić e Compagni. Oggi noi ricordiamo. La memoria diviene attualità, Noi stiamo a guardare. La storia diventa maestra. Pone un confronto fra queste lontane figure di frati idealisti, imprudenti, ma esaltati da un amore positivo e trascinante verso Cristo e persuasi della necessità missionaria propria della fede: martiri; e la nostra mentalità moderna, che nasconde sotto un mantello di evoluto scetticismo, una comoda e transigente viltà, e che, priva di principii superiori ed interiori, trova logico il conformismo alle idee correnti, alla psicologia risultante da un’alienazione collettiva alla ricerca e al servizio dei soli beni temporali. Sorge in noi un certo sentimento di disagio: noi ci sentiamo al tempo stesso distanti da quei campioni della fede, ma insieme avvertiamo, per tante ragioni, che essi ci sono vicini. Essi non sono figure anacronistiche e per noi irreali: essi anzi troppo ci dicono, e quasi ci rimproverano la nostra incertezza, la nostra facile volubilità, il nostro relativismo, che talora preferisce alla fede la moda. Lontani e vicini essi sono pur nostri, e ci ammoniscono e ci esortano, a noi pare, con parole simili a quelle che Noi, non molti giorni or sono, proferimmo: bisogna avere il coraggio della verità! il coraggio cristiano.
Ed un secondo sentimento succede al primo con una domanda imbarazzante: ma allora dobbiamo inasprire i dissensi con la società che ci circonda, e aggredirla con polemiche e con contestazioni, che rompono i nostri rapporti col nostro tempo e che accrescono le difficoltà della nostra presenza apostolica nel mondo? È questo l’esempio che dobbiamo raccogliere da questi valorosi oggi canonizzati Santi? No; noi non crediamo. A ben leggere nella loro storia e soprattutto nei loro animi, noi vediamo che non è uno spirito d’inimicizia che li spinse al martirio, ma piuttosto di amore, di ingenuo amore, se volete, e di folle speranza; un calcolo sbagliato, ma sbagliato per desiderio di giovare e di condurre a salvamento spirituale quelli stessi che essi provocarono a infliggere loro la terribile repressione del martirio. Questo è importante. È importante per il mondo della nostra così detta civiltà occidentale; il Concilio ce lo insegna. Ed è importante anche per quel mondo islamico nel quale si svolse e si consumò la tragedia di S. Nicola Tavelić e dei suoi Compagni: essi non odiavano il mondo musulmano; anzi, a loro modo, lo amavano. E certo lo amano ancora, e quasi personificano nella loro storia l’anelito cristiano verso il mondo islamico stesso, che la storia dei nostri giorni ci fa sempre meglio conoscere, fortificando la speranza di migliori rapporti fra la Chiesa cattolica e l’Islam: non ci ha esortato il Concilio «a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, non che a difendere e a promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà»? (Nostra aetate, 3)
Sono sentimenti questi che ci inducono a celebrare il Signore nei nuovi Santi, a ispirare la nostra vita al loro esempio, a invocare per la Chiesa, per la Croazia, per i Paesi d’origine loro, per tutta la famiglia francescana, e per il mondo intero la loro celeste protezione.
Nicola Tavelic
Primo santo della Nazione Croata, Nicola Tavelic, nacque verso il 1340 a Sebenico, in Dalmazia; adolescente entrò fra i Frati Minori di s. Francesco, divenuto sacerdote fu missionario in Bosnia, insieme a padre Deodato da Ruticinio, dove per circa 12 anni predicò contro i bogomili, setta eretica che in Bosnia aveva la sua roccaforte (essi contrapponevano il mondo dello spirito a quello della materia, considerato espressione della forza del male; negavano la Trinità, la natura umana di Cristo, l’Antico Testamento, non riconoscevano i riti e i sacramenti del battesimo e matrimonio, né la gerarchia ecclesiastica).
Poi nel 1383, insieme al francese padre Deodato Aribert da Ruticinio, fu inviato alla Missione palestinese di Mont Sion a Gerusalemme, dove incontrò gli altri due futuri compagni di martirio, padre Stefano da Cuneo e padre Pietro da Narbona, francese.
Deodato da Ruticinio (Diodato Aribert)
Deodato da Ruticinio, era francescano dalla Provincia d’Aquitania, non si conosce la data di nascita, probabilmente anche lui intorno al 1340.
Il suo paese di nascita, che in latino viene chiamato Ruticinio, è stato identificato da alcuni con l’odierna città francese di Rodez, mentre qualche altro indica il Roussillon, regione storica della Francia meridionale, che però a quel tempo dipendeva dalla Catalogna.
Nel 1372 fu inviato come missionario in Bosnia, dove conobbe padre Nicola Tavelic, con cui si legò da sincera amicizia, predicando insieme contro i bogomili; nel 1383 con il confratello, fu destinato al convento francescano di Mont Sion a Gerusalemme, dove incontrò anche i padri Stefano da Cuneo e Pietro da Narbona suo connazionale.
Pietro da Narbona
Tutto ciò che si conosce di questo francescano martire, è che era della Provincia francescana di Provenza, nella Francia meridionale, da dove ad un certo punto, scese in Italia, attratto dalla Riforma dell’Osservanza francescana, avviata in Umbria nel 1368, dal beato Paolo o Paoluccio Trinci da Foligno (1309-1391).
Trascorse nell’eremo umbro di Brogliano, posto tra Foligno e Camerino, una quindicina d’anni, vivendo in preghiera e meditazione la spiritualità di san Francesco.
Nel 1381 partì come missionario in Terra Santa, accolto nel convento di Mont Sion a Gerusalemme e dove poi incontrò nel 1383 Nicola Tavelic, Deodato da Ruticinio, suo connazionale e Stefano da Cuneo; coi quali subirà poi il martirio in modo orribile, il 14 novembre 1391.
Stefano da Cuneo
Ben poco si sa del santo francescano martire a Gerusalemme, Stefano da Cuneo, ricavandolo dalla preziosa ‘Relazione’ fatta dal padre Guardiano del convento di Mont Sion, sul martirio dei quattro sacerdoti appartenenti a quel convento della Custodia di Terra Santa.
Padre Stefano da Cuneo, era della Provincia francescana di Genova e aveva trascorso otto anni nella vicaria in Corsica, prima di essere trasferito a Gerusalemme nel 1383, dove poté svolgere la sua attività apostolica fra i musulmani per altri otto anni, prima del martirio, subito insieme ai confratelli francesi Deodato da Ruticinio e Pietro da Narbona ed il croato Nicola Tavelic.
La città d’origine del santo francescano, Cuneo, sembra dubbia, perché uno storico rinascimentale, asserì di aver raccolto una tradizione locale, che lo faceva nativo di Fiumorbo in Corsica, specificando della famiglia Prunelli.
Sarà pure, ma il martire è conosciuto da ben 600 anni come Stefano da Cuneo.