Colloquio di studio sul tema del «miracolo»
Introduzione
A voi tutti, Relatori e Ospiti di questo «Colloquio di studio» rivolgo il saluto cordiale mio e dell’intero Dicastero, con la rinnovata gratitudine per avere accettato di prendere parte a questa iniziativa. Permettete, però, che un particolare saluto e ringraziamento lo rivolga a S. Em. il Sig. Cardinale Gerhard L. Müller, che ha accolto la nostra richiesta non solo di partecipare, ma pure di presiedere e coordinare questi lavori su di un argomento, che una «importanza» l’ha davvero, almeno per noi, in questo Dicastero delle Cause dei Santi.
Scopo del nostro «colloquio», infatti, è giungere ad un approfondimento dell’antica prassi che, fin da Onorio III (1216-1227) e Gregorio IX (1227-1241), come ricordava Benedetto XIV-Prospero Lambertini, ha legato le procedure canoniche della beatificazione e canonizzazione al riconoscimento dei miracoli.[1] È una prassi che, come annotava L. Hertling, «ha le sue origini nel fatto che prima di fare la Translatio del Santo, un uomo di fiducia era incaricato di scrivere la sua vita con un elenco aggiunto di miracoli…».[2] Può esserne un esempio la Storia di san Tommaso d’Aquino messa a punto da Guglielmo di Tocco tra il 1318-1323 proprio in vista della canonizzazione dell’Aquinate, dove la narrazione dei miracoli occupa un’intera lunga sezione, subito dopo la narrazione della vita.[3]
La questione è rimasta inalterata sino a epoca recente, ossia sino alla pubblicazione nel 1974 di un articolo del p. P. Molinari S.J. circa la funzione e la necessità dei miracoli nelle cause di beatificazione e canonizzazione. A parere di questo Autore, nelle cause indicate il requisito del miracolo non sarebbe davvero molto antico e, per di più, al di là di altre considerazioni, sarebbe anche reso superfluo da una ricerca accurata e rigorosa circa l’esercizio delle virtù. Ci sarebbero, a suo parere, anche altre ragioni teologicamente più profonde circa l’inopportunità della richiesta di un miracolo, nel senso che potrebbe essere sufficiente allo scopo anche una genuina fama di santità.[4]
Non mancano, ancora oggi, alcuni che riprendono queste, o simili tesi: talvolta con analoghe argomentazioni, altre volte, invece, in forma più elementare e in alcuni casi discutibili. Il fine del mio dire non è, però, contestare in tutto, o in parte le tesi del p. Molinari. La cosa, peraltro, è già stata fatta;[5] neppure è quello di riassumere e ripresentare quella che è la prassi oggi seguita dal Dicastero.[6] Lo scopo è, piuttosto, evidenziare il carattere di «segno» che è insito nella nozione di miracolo.[7] In particolare si tratta della concezione del miracolo come digitus Dei, ossia come una sorta di assenso e di conferma che, per grazia, Dio concede alla Chiesa per quanto compiuto.
Per meglio spiegarmi, riprendo una distinzione fatta a suo tempo da H. U. v. Balthasar circa due vie, o missioni di santità che sono presenti nella Chiesa: quelle che dal corpo ecclesiale tendono verso il Capo e altre che dal Capo tendono verso il corpo. Scriveva:
Benché capo e membra costituiscano un unico corpo, benché Cristo e la chiesa vivano della sola, unica grazia e santità di Cristo e di Dio, esiste all’interno di questa unità una certa polarità. Essa si manifesta proprio nell’ambito della santità differenziata. Ci sono delle missioni, che piombano sulla chiesa come dei fulmini celesti, in quanto devono farle conoscere una volontà unica e irripetibile di Dio nei suoi confronti; ma ce ne sono anche delle altre che crescono nel seno della chiesa, diventano modelle per le altre… sono fiori che essa, nella sua grazia feconda ha fatto sbocciare e che presenta a Dio come le proprie primizie… Nella canonizzazione del primo gruppo è più la chiesa che obbedisce al Signore; nella canonizzazione del secondo invece è più il Signore che accondiscende al giusto desiderio della sua chiesa.[8]
Se ci collochiamo in questa prospettiva e ci facciamo aiutare dall’immagine del fiore presentato a Dio, allora la connotazione del miracolo come segno di gradimento e di concordanza ha un significato eloquente ed è proprio in tale contesto che si leggerà il miracolo come digitus Dei.
Nel De Beatificatione di Benedetto XIV leggiamo che «i miracoli fatti dopo la morte da Dio a intercessione dei defunti dimostrano la loro santità e costituiscono un segno manifesto e divino della santità (Divinum sanctitatis signum) … La santità si prova perfettamente quando alla confessione della fede e alla giustizia delle opere è congiunto il distintivo (tesseram) dei miracoli».[9]
Prima di indicare tre testi magisteriali che accolgono e ripropongono questa tesi, mi piace accennare al fatto che essa fu usata da J.H. Newman nel primo dei suoi due saggi sui miracoli, scritto quand’era Fellow all’Oriel College di Oxford tra l’estate del 1825 e il 1826, dunque nella fase anglicana della sua vita. Qui, trattando dell’idea e dello scopo del miracolo, dice che il miracolo è the signature of God. Scrive:
se lo scopo peculiare di un Miracolo è quello di dimostrare un messaggio da parte di Dio, è evidente che esso implica l’ammissione della verità fondamentale e richiede l’assenso a un’altra [verità] al di là di essa. La sua particolare interferenza è provata direttamente, mentre ricorda solo la sua esistenza. Professa di essere la firma di Dio su un messaggio consegnato da strumenti umani.
In breve, Newman intende dire che per chi crede, il miracolo porta un messaggio da parte di Dio; per chi, invece, è ateo deliberatamente e per principio, un miracolo non è affatto un argomento per provare l’esistenza di Dio.[10]
Il miracolo, dunque, è una «firma di Dio». Tra i Papi che di recente hanno fatto riferimento a questa tesi c’è Pio XII il quale ne parlò in occasione di un «colloquio» promosso dalla Congregazione per le Cause Santi che vedeva riuniti con i responsabili e il Consiglio medico della Congregazione i membri del Comitato medico internazionale di Lourdes oltre a diversi teologi e canonisti. Disse:
Quando vengono constatati in condizioni rigorose, poi riconosciuti ufficialmente dall’autorità ecclesiale, simili fatti sono come un sigillo divino che conferma la santità di un servo di Dio di cui si è invocata l’intercessione, un segno di Dio che suscita e legittima il culto che gli viene reso e dà garanzia all’insegnamento fornito dalla sua vita, la sua testimonianza e le sue azioni. Per le cause dei santi, i miracoli hanno un significato molto importante: fanno, in un certo senso, sentire la “voce di Dio” nel discernimento della Chiesa per la beatificazione o la canonizzazione di un servo di Dio. Illuminano e confermano il giudizio che impegna l’autorità di Pietro e della Chiesa.
Analogo insegnamento giunge da Benedetto XVI il quale, nella sua Lettera del 24 Aprile 2006 inviata ai partecipanti alla sessione plenaria della Congregazione della Cause dei santi, scriveva:
È noto che fin dall’antichità, l’iter per arrivare alla canonizzazione passa attraverso la prova delle virtù e dei miracoli, attribuiti alla intercessione del candidato agli onori degli altari. Oltre a rassicurarci che il Servo di Dio vive in cielo in comunione con Dio, i miracoli costituiscono la divina conferma del giudizio espresso dall’autorità ecclesiastica sulla sua vita virtuosa. Auspico che la Plenaria possa approfondire questo argomento alla luce della tradizione della Chiesa, dell’odierna teologia e delle più accreditate acquisizioni della scienza.[11]
Similmente si espresse Papa Francesco nel suo Discorso ai membri della Congregazione delle Cause dei Santi del 12 dicembre 2019:
una volta, con il Cardinale Amato, abbiamo parlato della necessità del miracolo. Ci vuole un miracolo perché è proprio il dito di Dio lì. Senza un intervento del Signore chiaro, noi non possiamo andare avanti nelle cause di canonizzazione.[12]
Fatte queste premesse sarà ovvio ammettere che non è affatto il miracolo a fare il santo, ma Iddio per intercessione del santo. Durante l’omelia per la beatificazione di Clelia Barbieri il 27 ottobre 1968 san Paolo VI lo disse così:
Quelli che credono che la santità abbia come manifestazione ordinaria il miracolo spesso si illudono. Il miracolo potrà verificarsi, e costituire il segno di virtù e di carismi straordinari, e quindi santità meritevole di speciale onore e di fiducioso credito. Ma questa santità dev’essere cercata in altre sue manifestazioni, le quali esigono nell’osservatore particolari condizioni di spirito, che sono poi quelle che da un lato rendono a lui benefico il culto dei Santi e dall’altro lo giustificano; cioè dev’essere cercata nella somiglianza, che il Santo riflette su di sé, di Cristo, il modello, il maestro, il vero Santo. Il culto dei Santi è una ricerca di Cristo in alcuni suoi seguaci, più fedeli e più favoriti.
L’anno dopo, nell’omelia per la canonizzazione della beata Giulia Billart (22 giugno 1969) la sua riflessione fu più ampia e con questa citazione, rinnovando il mio grazie per tutti voi che prendete parte a questo Colloquio, concludo il mio intervento di introduzione:
La santità è un dramma di amore, fra Dio e l’anima umana; un dramma in cui il vero protagonista è Dio stesso, operante e cooperante (cf. STh I-II, 111, 2); nessuna storia è più interessante, più ricca, più profonda, più sorprendente di questo dramma; dovremmo esserne curiosi e ammiratori, come lo erano i cristiani d’una volta, sapientemente attratti dall’incanto del singolare fenomeno, che lascia intravedere qualche cosa della prodigiosa azione di Dio in una vita umana privilegiata, e fa ammirare questa stessa vita nella esplicazione delle più segrete e più belle virtualità della nostra natura animata da forze soprannaturali. Questa è l’agiografia: lo studio della santità. Il quale studio degnissimo ha spesso rivolto il suo sguardo appassionato agli aspetti miracolosi della santità; e se ne è tanto invaghito da fermare all’osservazione dei miracoli la sua attenzione, quasi facendo un’equazione fra santità e miracolo, a tal punto da concedere talvolta in altri tempi alla devozione verso la santità la licenza d’ornarla di miracoli immaginari e di leggende stupefacenti, non forse con l’intenzione di recare offesa alla verità storica, ma in omaggio gratuito e convenzionale, floreale e poetico, potremmo dire, alla santità stessa, e in edificante divertimento alle anime pie e al popolo religioso.[13] Ora non più così. Il miracolo resta la prova, un segno della santità; ma non ne costituisce l’essenza. Ora lo studio della santità è piuttosto rivolto alla verifica storica dei fatti e dei documenti che la attestano, e all’esplorazione della psicologia della santità e sia l’uno che l’altro sentiero conducono a campi sconfinati di interessantissime osservazioni; questo secondo specialmente, quello propriamente agiografico, merita tutto il nostro interesse, di noi moderni in modo particolare, abituati come siamo dalla psicanalisi moderna a scoprire e ad agitare il torbido fondo dello spirito umano, mentre potremmo e dovremmo nello studio delle anime sante scorgere con maggiore acutezza e con maggiore godimento «quale splendida cosa sia l’umanità».[14]
L’umanità è una realtà bella! L’esclamazione di Paolo VI è un implicito rimando al testo della Genesi quando dopo avere narrato la creazione dell’uomo, l’autore sacro aggiunge: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31).
Agostino commenterà dicendo che con ciò Dio «volle simboleggiare il riposo futuro che avrebbe dato agli uomini dopo le buone opere».[15] La bontà dell’opera della creazione ha, dunque, uno slancio escatologico. San Beda amplificherà la lettura agostiniana spiegando che «dopo le opere buone che Dio stesso opera in noi, e che ciascuno desidera e realizza, tutti tendiamo verso il riposo della vita celeste, in cui godremo della sua eterna santificazione e benedizione».[16] Possiamo far valere questo anche per il miracolo.
Il p. Latourelle scriveva che il miracolo è una sorta di irruzione dell’aldilà e dell’eternità nel nostro tempo e alimenta, proprio per questo la speranza e conserva l’uomo come in uno stato d’allerta in attesa dello Sposo. C’è un rapporto stretto tra miracolo e santità perché «la guarigione di un corpo mediante il miracolo e la trasformazione di un uomo o di una donna mediante la santità, sono entrambi i segni di un mondo nuovo che nasce sotto i nostri occhi».[17]
Il senso ultimo del miracolo, dunque, è, come diceva Romano Guardini, quello escatologico: attraverso questo segno Dio ci concede di intuire, benché ancora ex parte (1Cor 13,12), quale sia il suo eterno progetto su noi e quale sarà il nostro stato di esistenza quando Egli sarà tutto in tutti.[18]
Dicastero delle Cause dei Santi, 29 ottobre 2024
Marcello Card. Semeraro
__________
[1] Cf. De beatorum Dei beatificationis et canonizationis, IV/1, V, 4: L.E.V., Città del Vaticano 2018, pp. 168-169. Per completezza si dirà che nella storia delle cause di canonizzazione è stata sostenuta pure la tesi opposta, cioè che si potesse procedere a una canonizzazione nel caso che ci fossero molti miracoli attribuiti a un Servo di Dio del quale, però, non si potessero provare le sue virtù perché vissuto in epoca remota. Tali tesi fu sostenuta dal cardinale francescano Lorenzo Brancati di Lauria, ma ebbe scarsa accoglienza: cf. J.L. Gutiérrez, Studi sulle Cause di Canonizzaziome, Giuffrè ed., Milano 2005. pp. 317-319.
[2] L. Hertling, Materiali per la Storia del processo di Canonizzazione, in «Gregorianum» 16 (1935), p. 187.
[3] Cf. Guglielmo di Tocco, Storia di san Tommaso d’Aquino, Jaca Book, Milano 2015, pp. 230-293.
[4] Cf. P. Molinari, Observationes aliquot circa miraculorum munus et necessitatem in causis beatificationis et canonizationis, in «Periodica de re morali canonica liturgica» 63 (1974, pp. 341-384. In un successivo articolo, però, lo stesso Autore non esprime queste osservazioni, cf. P. Molinari, I miracoli nelle beatificazioni e nelle canonizzazioni, ne «La Civiltà Cattolica» 2011/III, pp. 245-521 (quad. 3867-3868 del 6-20 agosto 2011).
[5] Per questo, cf. F. Veraja, La canonizzazione equipollente e la questione dei miracoli nelle cause di Canonizzazione, in «Apollinaris» 48 (1975), pp. 222-245; 475-500 e 49 (1976), pp. 182-200; R. Latourelle, Miracle et sainteté dans les causes de béatification et de canonisation, in «Science et Esprit», L/3 (1998), pp. 265-267; A. Royo Mejía, Algunas cuestiones sobre la heroicidad de las virtudes y la certeza moral jurídica en las caus de los santos, in «Ius Canonicum» n. 67 (1994), pp. 216-226.
[6] Per questo si potranno vedere A. Royo, I miracoli nelle cause dei santi, in V. Criscuolo, C. Pellegrino, R.J. Sarno (a cura di), «Le Cause dei Santi. Sussidio per lo Studium, LEV, Città del Vaticano 2018. pp. 105-122; Gutiérrez, Studi sulle Cause di Canonizzaziome cit., pp. 315-334; S. La Pegna, Il miracolo: accertamento degli elementi scientifici e teologici. Inchiesta diocesana, in https://www.causesanti.va/it/archivio-del-dicastero-cause-santi/interventi-e-articoli/sergio-la-pegna-il-miracolo-accertamento-degli-elementi-sci.html; B. Turek, Algunas notas sobre presuntois milagros, in L. Grosso Garcia, Normativa y orientaciones vigentes para las Causas de los Santos (II), Edice Edit., Madrid 2022, pp. 101-115. Per uno studio completo, cf. F. Vinaixa Monsonís, Los milagros en las Causas de canonización, EDICEP, Valencia 2015 («Thesis ad Doctoratum in Iure Canonico totaliter edita – Pontificia Universitas Sanctae Crucis – Facultas Iuris Canonici - Romae 2015»).
[7] Il termine «segno» è qui inteso non come nella formula classica «fama sanctitatis et signorum», ma nel senso generale di «realtà che rimanda ad un’altra e in tal modo la indica»; nel nostro caso questa funzione di rimando ad altro risulta dall’essenza del segno stesso e non, invece, da un accorso convenzionale, cf. K. Rahner, H. Vorgrimler, v. Segno, in «Dizionario di Teologia», Editori Associati, Milano 1994, pp. 635-636.
[8] H.U. v. Balthasar, Sorelle nello spirito. Teresa di Lisieux ed Elisabetta di Digione, Jaca Book, Milano 1974, pp. 26-27.
[9] IV/1, V, 5: in De beatorum Dei cit., p. 171. A proposito del miracolo Benedetto XVI lo indica pure come magnum signum probitatis vitae (Ibid., p. 175) e attestatio verae sanctitatis alicuius (IV/1, IV, 1: in De beatorum Dei cit., p. 130).
[10] J.H. Newman, Two Essays on Scripture Miracles and and on ecclesiastical, Basil Montagu Pckering, London 1870 (2 ed.), pp. 10-11.
[11] Benedetto XVI aggiungeva: «Non va dimenticato che nell’esame degli asseriti eventi miracolosi confluisce la competenza degli scienziati e dei teologi, sebbene la parola decisiva spetti alla teologia, la sola in grado di dare del miracolo un’interpretazione di fede. Per questo nella procedura delle Cause dei Santi si passa dalla valutazione scientifica della Consulta Medica o dei periti tecnici all’esame teologico da parte dei Consultori e successivamente dei Cardinali e Vescovi. È poi da tenere presente chiaramente che la prassi ininterrotta della Chiesa stabilisce la necessità di un miracolo fisico, non bastando un miracolo morale».
[12] Similmente nella visita alla Congregazione delle Cause dei Santi Papa Francesco disse: «Io in coscienza rifiuterà una beatificazione senza miracolo perché per me il miracolo è il dito di Dio, che ci dice: questo va. I Santi che ho fatto senza miracolo erano tutti Beati con una cosa comune: erano grandi evangelizzatori. Anchieta, Junipero Serra, Favre».
[13] Paolo VI rimanda al cap. 11 di H. Delehaye, Cinq leçons sur la méthode agiographique. L’opera fu edita a Bruxelles 1934 con la Société des Bollandistes di cui Delehaye era presidente.
[14] Qui Paolo VI cita un’espressione da La tempesta di Shakespeare (How beauteous mankind is: Atto 5, scena 1) riprendendola dal vol. I dell’Histoire littéraire du sentiment religieux en France di H. Bremond (cf. oggi ed. J. Millon, Grenoble 2006, pp. 77. 312.
[15] Epist. 55, 10, 19: PL 33, 213: «Futuram enim requiem significabat, quam post bona opera daturus erat nobis hominibus».
[16] Hexaemeron, I: PL 91, 35: «designavit quod nos singuli post opera bona quae in nobis ipse operatur et velle et perficere, ad requiem tendimus vitae coelestis, in qua aeterna ejus sanctificatione et benedictione perfruamur».
[17] Latourelle, Miracle et sainteté cit., p, 275.
[18] Cf. R. Guardini, Miracoli e segni, Morcelliana, Brescia 1985, p.29.