
Il Cardinale Marcello Semeraro, nominato da Francesco alla guida del Dicastero dei Santi, non era solo un collaboratore stretto ma un amico di Bergoglio. Si conoscevano da quasi un quarto di secolo.
«Con alcuni amici ci siamo detti: non l’ha subita, la morte. Non a caso, fino all’ultimo, ha voluto stare tra i fedeli. Era una sua precisa volontà. È morto sulla breccia».
Come l’ha saputo, eminenza?
«Ero nella cappella privata a recitare la liturgia delle ore. Mi ha avvertito un confratello cardinale, dicendomi che di lì a poco ci sarebbe stato l’annuncio. Mi sono emozionato, ma che potevo fare, ormai? Ho continuato a pregare».
Lei fu testimone di un evento unico nella storia, l’incontro tra i «due Papi» del 23 marzo 2013: accolse Francesco che andava a trovare Benedetto XVI a Castel Gandolfo...
«Benedetto, con la sua consueta gentilezza, mi indicò e disse a Francesco: le presento il vescovo di Albano. E Francesco rise: ma lui lo conosco da anni!».
Com’era successo?
«Fu durante la X assemblea generale del Sinodo dei vescovi. Era il settembre 2001, l’arcivescovo di New York dovette tornare negli Stati Uniti per l’attentato alle Torri Gemelle e Giovanni Paolo II nominò l’arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, come relatore generale aggiunto. Io ero il segretario speciale dell’assemblea e così cominciammo a lavorare insieme».
Quando vi siete visti, l’ultima volta?
«Una settimana fa, a Santa Marta, nel salottino accanto alla sua camera. Stava seduto dietro la scrivania, aveva dei documenti davanti a sé, abbiamo affrontato alcune questioni ed era lucidissimo. Però parlava con un filo di voce, ho visto tutta la sua fragilità...».
In che senso?
«Non ho potuto baciarlo sulle guance perché aveva i naselli per l’ossigeno. Allora gli ho baciato la mano ed era gonfia, con i segni degli aghi. Si ripeteva che stava meglio, lo dicevano anche a noi cardinali. Magari, vestito con le vesti ecclesiastiche, si notava meno. Ma visto in privato, con gli abiti da camera, mi dava la sensazione di un padre anziano che ha molto sofferto. C’erano delle carte che mi doveva dare, e anche dei rosari benedetti che lui ogni volta mi dava perché li donassi. Sono uscito dalla stanza commosso».
Avevate parlato anche della canonizzazione di Carlo Acutis?
«Sì, si trattava di definire la modalità della sua presenza. C’erano diverse possibilità, eravamo rimasti in sospeso, d’accordo che due o tre giorni prima avremmo verificato. Il problema era se fosse in grado di pronunciare la formula di canonizzazione. Quando domenica ha detto “cari fratelli e sorelle, buona Pasqua”, e gli è subito mancato il respiro, ho pensato che non ce l’avrebbe fatta. Però voleva esserci: l’alternativa era che qualcun altro leggesse la formula e lui desse il suo assenso».
Cosa resterà, di Francesco?
«Ha dato alla Chiesa un movimento di estroversione, l’ha fatta uscire da sé stessa. Ha capito che non siamo di fronte a un’epoca di cambiamento, ma a un cambiamento d’epoca, come amava ripetere, e ha agito di conseguenza. Il tema delle periferie non indica tanto un luogo verso il quale andare, ma un modo diverso di leggere la realtà, un punto di vista differente. Pensiamo all’insistenza sulla gioia di essere cristiani, o al tema della sinodalità nel senso di camminare insieme. Ci ha ricordato che chi governa deve mettersi in ascolto del popolo di Dio, del suo istinto della fede. Ci sono dei cammini nella Chiesa che vengono percorsi e non possono essere cambiati, altrimenti sarebbe come tornare indietro».
Corriere della Sera, martedì 22 aprile 2025, pag. 16
Gian Guido Vecchi